Permettetemi un’osservazione a margine
alla visita nel nostro paese del Dalai Lama, evento che ho seguito con
il dovuto rispetto, cercando di tenere a bada un certo nervosismo crescente,
perché non siamo più nell’Ottocento, il mero razionalismo ha dimostrato
da tempo di non poter risolvere i nostri problemi e siamo tutti spiritualmente
lontani da quei versi del Carducci in cui il termine “lama” è impiegato
come sinonimo di despotismo religioso e la simpatia che esso ispira al
poeta viene paragonata a quella che in lui suscitava la tassa sul macinato.
Il Carducci, oltretutto, era un estremista che parlava male persino
del papa e tanto basti.
Tranquillizzatevi.
L’osservazione (minima) che mi azzardo a fare non ha nulla a che
vedere con tutto ciò. Riguarda solo un titolo in prima pagina
del “Corriere della sera” di domenica scorsa, un’asserita (e un po’
enigmatica) citazione tra virgolette di parole del lama in questione che
suona, letteralmente: “Se il Tibet torna democratico posso lasciare”.
Espressione con cui, come si finisce per capire con un certo sforzo,
il buon Tenzin Gyatso esprime, a costernazione – suppongo – dei suoi
estimatori italiani, la disponibilità a rinunciare, se del caso, al potere
temporale.
Questa
del potere temporale, a pensarci bene, è una buffa storia. I capi
religiosi che ne disponevano si sono sempre dichiarati disposti a rinunciarvi
come a un peso sgradito, ma sempre solo dopo esserne stati allontanati
a cannonate da qualcun altro. Lo ha fatto anche il papa (non lo stesso
del Carducci), un secolo dopo Porta Pia. Deporre una pretesa, evidentemente,
è più facile che mollare il trono. Ma non è questo il punto, naturalmente.
Il punto è in quel “torna”. “Se il Tibet torna democratico”
dice il Dalai Lama “posso lasciare”. Bene, ribatte il lettore non
del tutto digiuno di storia orientale, ma perché “torna”? Per tornare
da qualche parte bisogna esserci già stati e quando mai in Tibet c’è stata
la democrazia? Adesso certo no, ma neanche nel 1950, quando il paese
fu aggredito e invaso dalla Cina. Allora, si sa, vigeva la teocrazia.
E per quanto la teocrazia possa sembrare allettante a chi contempla
il funzionamento di certi sistemi democratici (il nostro, per dirne uno),
non c’è dubbio che la democrazia, tutto sommato, sia un’altra cosa.
Non
arrabbiatevi, vi prego. Non sto accusando, dio scampi, il Dalai Lama
di ignoranza storica o pregiudizi ideologici. In effetti, lui, che,
a giudicare dal poco che ho letto delle sue cose, deve essere persona di
gran buon senso e alta cultura, non ha mai detto nulla di simile. Neanche
nell’intervista cui rimanda quel titolo. Tenzin Gyatso vi afferma,
saggiamente, che la forma di governo che auspica per il suo paese è la
democrazia e che, per parte sua, ha “deciso di rinunciare a ogni carica
politica in un Tibet futuro di questo genere”, dichiarandosi disposto,
ove i tibetani “pensassero di non avere più bisogno dell’istituzione
religiosa del Dalai Lama” a mettere “anche questa decisione nelle loro
mani”.
Sì,
avete ragione. Avercene, di leader religiosi così. Ma allora
– mi chiedo da quel maledetto pignolo che sono – perché mai il titolatore,
che nel giornalismo moderno conta assai più dell’articolista, ha attribuito
a quell’infelice paese un passato democratico che non ha mai avuto? Per
crassa ignoranza? Può darsi. Per indifferenza? Probabilmente.
Per pura indolenza? Non me ne stupirei. Leggere un articolo
è sempre una fatica da evitare, anche quando bisogna apporvi un titolo.
Ma
non escluderei un’altra possibile spiegazione. L’ignoto falsificatore
può aver agito per puro dualismo ideologico. Oggi, può aver ragionato,
in Tibet c’è il comunismo, che, oltre a essere stato imposto a cannonate
a chi non ne sentiva particolarmente il bisogno, è notoriamente il contrario
della democrazia. E, per logica conseguenza, tutto ciò che è contrario
al comunismo è, o è stato, o sarà democrazia, compresa la teocrazia tibetana,
onde il “torna”. Il sillogismo è volgare e il “Corriere”, probabilmente,
non lo userebbe mai in forma esplicita, ma implicitamente, in un titolo
buttato lì, non se lo nega. Facile, no?
Facilissimo.
In effetti, il paralogismo in questione è largamente impiegato per
ripianare molte situazioni imbarazzanti. Serve a difendere l’operato
di tiranni e tirannelli come Eltsin e peggio, a beatificare le varie Gladio
e i vari Cossiga della storia, a dare patenti di democraticità ai Berlusconi
e ai Fini, a giustificare i molteplici orrori della società basata sul
profitto e sul mercato, che sta distruggendo il pianeta e soffocando l’umanità,
ma, non avendo nulla a che fare con il comunismo, va bene lo stesso. Se,
a fronte di tanti vantaggi, comporta l’effetto minore di falsificare la
storia, che importanza può avere? A ben altre falsificazioni siamo
avvezzi da tempo e del Tibet e dei tibetani, credetemi, al novanta per
cento di coloro che in questi giorni si sono stretti plaudenti attorno
a Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, non gliene frega proprio, ma proprio niente.
Se in un futuro che tutti auspichiamo, un futuro di vera democrazia
per il suo paese volesse, per qualche motivo, sbarrare il passo alle multinazionali
o non installare qualche rampa di missili cara al Pentagono, lo rimanderebbero
in India a tempo di record.
31.10.’99