Falsificazioni

La caccia | Trasmessa il: 10/31/1999



Permettetemi un’osservazione a margine alla visita nel nostro paese del Dalai Lama, evento che ho seguito con il dovuto rispetto, cercando di tenere a bada un certo nervosismo crescente, perché non siamo più nell’Ottocento, il mero razionalismo ha dimostrato da tempo di non poter risolvere i nostri problemi e siamo tutti spiritualmente lontani da quei versi del Carducci in cui il termine “lama” è impiegato come sinonimo di despotismo religioso e la simpatia che esso ispira al poeta viene paragonata a quella che in lui suscitava la tassa sul macinato.  Il Carducci, oltretutto, era un estremista che parlava male persino del papa e tanto basti.
        Tranquillizzatevi.  L’osservazione (minima) che mi azzardo a fare non ha nulla a che vedere con tutto ciò.  Riguarda solo un  titolo in prima pagina del “Corriere della sera” di domenica scorsa, un’asserita (e un po’ enigmatica) citazione tra virgolette di parole del lama in questione che suona, letteralmente:  “Se il Tibet torna democratico posso lasciare”.  Espressione con cui, come si finisce per capire con un certo sforzo, il buon Tenzin Gyatso esprime, a costernazione – suppongo – dei suoi estimatori italiani, la disponibilità a rinunciare, se del caso, al potere temporale.
        Questa del potere temporale, a pensarci bene, è una buffa storia.  I capi religiosi che ne disponevano si sono sempre dichiarati disposti a rinunciarvi come a un peso sgradito, ma sempre solo dopo esserne stati allontanati a cannonate da qualcun altro.  Lo ha fatto anche il papa (non lo stesso del Carducci), un secolo dopo Porta Pia.  Deporre una pretesa, evidentemente, è più facile che mollare il trono.  Ma non è questo il punto, naturalmente.  Il punto è in quel “torna”.  “Se il Tibet torna democratico” dice il Dalai Lama “posso lasciare”.  Bene, ribatte il lettore non del tutto digiuno di storia orientale, ma perché “torna”?  Per tornare da qualche parte bisogna esserci già stati e quando mai in Tibet c’è stata la democrazia?   Adesso certo no, ma neanche nel 1950, quando il paese fu aggredito e invaso dalla Cina.  Allora, si sa, vigeva la teocrazia.  E per quanto la teocrazia possa sembrare allettante a chi contempla il funzionamento di certi sistemi democratici (il nostro, per dirne uno), non c’è dubbio che la democrazia, tutto sommato, sia un’altra cosa.
        Non arrabbiatevi, vi prego.  Non sto accusando, dio scampi, il Dalai Lama di ignoranza storica o pregiudizi ideologici.  In effetti, lui, che, a giudicare dal poco che ho letto delle sue cose, deve essere persona di gran buon senso e alta cultura, non ha mai detto nulla di simile.  Neanche nell’intervista cui rimanda quel titolo.  Tenzin Gyatso vi afferma, saggiamente, che la forma di governo che auspica per il suo paese è la democrazia e che, per parte sua, ha “deciso di rinunciare a ogni carica politica in un Tibet futuro di questo genere”, dichiarandosi disposto, ove i tibetani “pensassero di non avere più bisogno dell’istituzione religiosa del Dalai Lama” a mettere “anche questa decisione nelle loro mani”.
        Sì, avete ragione.  Avercene, di leader religiosi così.  Ma allora – mi chiedo da quel maledetto pignolo che sono – perché mai il titolatore, che nel giornalismo moderno conta assai più dell’articolista, ha attribuito a quell’infelice paese un passato democratico che non ha mai avuto?  Per crassa ignoranza?  Può darsi.  Per indifferenza?  Probabilmente.   Per pura indolenza?  Non me ne stupirei.  Leggere un articolo è sempre una fatica da evitare, anche quando bisogna apporvi un titolo.
        Ma non escluderei un’altra possibile spiegazione. L’ignoto falsificatore può aver agito per puro dualismo ideologico.  Oggi, può aver ragionato, in Tibet c’è il comunismo, che, oltre a essere stato imposto a cannonate a chi non ne sentiva particolarmente il bisogno, è notoriamente il contrario della democrazia.  E, per logica conseguenza, tutto ciò che è contrario al comunismo è, o è stato, o sarà democrazia, compresa la teocrazia tibetana, onde il “torna”.  Il sillogismo è volgare e il “Corriere”, probabilmente, non lo userebbe mai in forma esplicita, ma implicitamente, in un titolo buttato lì, non se lo nega.  Facile, no?
        Facilissimo.  In effetti, il paralogismo in questione è largamente impiegato per ripianare molte situazioni imbarazzanti.  Serve a difendere l’operato di tiranni e tirannelli come Eltsin e peggio, a beatificare le varie Gladio e i vari Cossiga della storia, a dare patenti di democraticità ai Berlusconi e ai Fini, a giustificare i molteplici orrori della società basata sul profitto e sul mercato, che sta distruggendo il pianeta e soffocando l’umanità, ma, non avendo nulla a che fare con il comunismo, va bene lo stesso.  Se, a fronte di tanti vantaggi, comporta l’effetto minore di falsificare la storia, che importanza può avere?  A ben altre falsificazioni siamo avvezzi da tempo e del Tibet e dei tibetani, credetemi, al novanta per cento di coloro che in questi giorni si sono stretti plaudenti attorno a Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, non gliene frega proprio, ma proprio niente.  Se in un futuro che tutti auspichiamo, un futuro di vera democrazia per il suo paese volesse, per qualche motivo, sbarrare il passo alle multinazionali o non installare qualche rampa di missili cara al Pentagono, lo rimanderebbero in India a tempo di record.

31.10.’99