Eventi a strati

La caccia | Trasmessa il: 12/11/2005



Fa un po’ impressione, sinceramente, la fotografia che campeggia a tutta pagina in testa al dorso milanese del “Corriere” giovedì scorso.  Scattata la sera prima all’Ottagono della Galleria, raffigura quello che una volta si chiamava “il salotto di Milano” gremito fino all’inverosimile di cittadini, tutti intabarrati fino al collo per reggere a una temperatura che, anche in quell’ambiente semiriparato non avrà superato i tre quattro gradi, rigidi come altrettanti baccalà e con l’occhio a palla incollato ai megaschermi sui quali veniva proiettato, in diretta dal teatro alla Scala, l’Idomeneo di Mozart, che, come ricorderete, inaugurava quella sera la stagione di quello che si usa definire il massimo tempio dell’opera lirica.  Un’immagine , ripeto, abbastanza impressionante e tale, comunque da suscitare qualche curiosità.  Erano tutte indistintamente melomani quelle brave persone, disposte a sfidare clima e disagi per ascoltarsi un’opera che non è tanto facile incontrare in repertorio?  I commenti di stampa, in genere, li consideravano tali e ne traevano, anzi, pretesto per celebrare l’alto livello della cultura musicale in città, ma, con tutto il dovuto rispetto, io credo sia lecito dubitarne.  Sì, qualche melomane nella massa ci sarà anche stato, e in proporzione maggiore, probabilmente, di quelli presenti in teatro, ma quello dell’opera seria settecentesca, di cui l’Idomeneo rappresenta un onesto esemplare, non è, per una quantità di motivi storici e culturali, di cui Mozart stesso riveste una certa responsabilità, un genere che oggi possa aspirare a una popolarità di massa.  Ci sono troppe difficoltà di ascolto, nel senso che l’opera seria richiede, per essere adeguatamente apprezzata, la conoscenza di un certo numero di convenzioni piuttosto complesse, l’adesione a un sistema di criteri di valutazione, che vanno un po’ oltre la cultura corrente del medio appassionato di oggi, compreso me che vi parlo, che infatti, mancando di quegli strumenti, finisco ogni volta che me ne lascio coinvolgere per trovarla irrimediabilmente noiosa.

In effetti, leggendo un po’ tra le righe le cronache della serata di Sant’Ambrogio, si capisce che una certa dose di noia deve essere serpeggiata tanto alla Scala quanto in Galleria, per non dire del Teatro Dal Verme, dove l’assessore competente aveva invitato un pubblico di anziani a condividere la stessa esperienza e del Teatro degli Arcimboldi, dove, inchiodati di fronte ad analoghi megaschermi, si accalcavano certi non meglio precisati giovani.  Ed è facile capire che i più fortunati, nonostante il freddo e la scomodità, erano quelli della Galleria, che almeno potevano andarsene quando volevano.  Agli altri, poveretti, quattro ore abbondanti di arie, insiemi e recitativi non le ha tolte nessuno e non tutti, naturalmente, potevano sostenersi con la prospettiva della cena di gala a Palazzo Reale, cui il Comune di Milano aveva invitato, a nostre spese, trecento VIP particolarmente vipposi.  Gli altri avranno sofferto in silenzio, paghi di partecipare, comunque, a un Evento, anzi a quello che, per unanime sentenza dei media, andava considerato l’Evento per eccellenza di questa stagione.

Già.  Perché oggi, lo avrete notato anche voi, gli eventi culturali che contano sono soltanto quelli che hanno perso l’aggettivo e acquisito la maiuscola.  Quelli di cui, per un motivo o per l’altro, si parla molto prima che si realizzino e cui chiunque, a prescindere della tipologia dell’offerta – si tratti di una rappresentazione musicale o teatrale, della pubblica lettura di un testo, dell’esibizione di un interprete o di una celebrità o semplicemente della sfilata per le vie cittadine di un sommergibile montato su ruote – può partecipare al di là di qualsiasi problema di competenze e interessi.  Quelli che possono combinare il massimo della passività nella fruizione con un certo livello di esibizione di sé, secondo i principi di quella che, nel generale tracollo dei valori sociali, sembra restata l’ultima virtù civica praticabile, come a dire il presenzialismo.  Perché essere comunque presenti all’Evento è forse l’unico l’imperativo che regoli oggi la vita associata, fatti politici compresi.   La possibilità di ricavarne un messaggio, di metabolizzarlo ai fini della propria crescita spirituale o, semplicemente, di divertircisi interessa molto, ma molto meno.

Certo, c’è partecipazione e partecipazione.  Nell’impossibilità (o, forse, nella rinuncia programmatica) di assicurare a tutti lo stesso tipo di accesso, le autorità cittadine, dando prova di una genialità di cui – lo confesso – non le avrei credute capaci, hanno optato per una partecipazione stratificata per classi e categorie sociali.  Nella sala del Piermarini, al calduccio e in gran spolvero, i ricchi e i potenti.  Al Dal Verme gli anziani e agli Arcimboldi i giovani, due categorie che notoriamente è bene tener separate.  In Galleria gli altri.  L’immagine che ne esce è indubbiamente quella di una città ordinata, in cui ciascuno sa stare al proprio posto, e in cui certe cadute di stile, come quella del presidente Berlusconi, che ad andare a sentire un’opera lirica proprio non riesce a rassegnarsi (e in questa sua indifferenza alle pretese culturali riesce, per una volta, quasi simpatico), ma spedisce spietatamente al Dal Verme la vecchia madre, o quella dell’assessore Maiolo, che ha arringato gli anziani ivi convenuti su quanto fosse stata brava a convocarli lì, e poi se n’è andata a godersi l’opera alla Scala con i suoi parigrado, non si avvertono quasi.   L’Evento non è fatto per guardare gli altri ed eventualmente a criticarli: serve solo a permettere di esibire se stessi.   E a questo tipo di accadimento il successo non manca mai.