Anche se Achille con il corpo di Ettore fa di peggio, l’esposizione della
testa mozzata del nemico vinto in battaglia non è usanza diffusa nel mondo
greco romano, né fa parte, in linea di principio, della cultura delle popolazioni
germaniche che si insediarono in Occidente dopo la crisi dell’impero.
Quella macabra consuetudine, già attestata nella Cina classica, fu
cara particolarmente all’Asia centrale, a quelle popolazioni nomadi e
ai loro barbarici condottieri: sappiamo che la praticarono con larghezza
gli Attila, i Gengis Khan, i Tamerlano e altri temibili signori delle steppe.
I turchi ottomani, che con quell’ambiente avevano non poche relazioni
e affinità, mantennero la pratica in uso fino agli albori dell’era contemporanea.
Per la precisione, i generali del Sultano di Costantinopoli non
esponevano la testa intera, che preferivano restasse attaccata al tronco
del defunto: ai nemici caduti veniva prelevata la pelle del volto e della
fronte, completa di cuoio capelluto, che veniva poi ricostruita su una
base neutra e accuratamente impagliata. La procedura può sembrare
abbastanza raccapricciante, ma aveva, se non altro, il vantaggio di togliere
alla cerimonia dell’esposizione molte delle sue caratteristiche cruente
e di permettere di prolungarla nel tempo. Che tutto questo, poi,
esprimesse soltanto una volontà di autoglorificazione militare o non riflettesse
piuttosto qualche antica ritualità religiosa può essere materia di dibattito.
Lo sparagmós, il dilaniamento rituale della vittima, ci è noto dai
culti orfici e dionisiaci – ricorderete tutti il passaggio delle Baccanti
di Euripide in cui le donne di Tebe innalzano su una picca il capo di Penteo
– e quei culti rimandano, a loro volta, a una cultura sciamanica che nell’Asia
centrale e settentrionale aveva appunto il proprio luogo di origine.
Nessuna motivazione del genere, naturalmente,
può essere rintracciata nella decisione del Pentagono di riprendere e perfezionare
il sistema ottomano, esibendo sotto forma di ingrandimento fotografico
la testa di Abu Musab al-Zarqawi, il leader islamico da poco abbattuto
in Iraq. L’immagine di un portavoce dell’esercito americano che
indica, con una specie di bacchetta da aula scolastica, il primo piano
incorniciato della faccia del morto ancora coperta di sangue, come l’abbiamo
vista in televisione e in prima pagina su tutti i quotidiani di venerdì
scorso, risponde, evidentemente, a delle necessità di puro ordine propagandistico:
in primis quella di assicurare a un’opinione pubblica locale non propriamente
convinta, agli alleati malfermi, ai leader incerti e ai vari oppositori
potenziali che quel nemico tanto temibile, quel feroce combattente la cui
popolarità era così minacciosamente dilagata e sulla cui eliminazione ci
si era più volte impegnati senza successo, era stato effettivamente tolto
di mezzo. Un gesto impietoso e incompatibile con gli standard correnti
di civiltà, che basterebbe da solo a rivelare con drammatica evidenza quanto
poco quegli standard siano tenuti in conto nel conflitto irakeno. Perché
sarà sicuramente stato, questo al-Zarqawi, un personaggio brutale, responsabile
di crudeli attentati terroristici, della decapitazione di ostaggi e di
altre innumerevoli nefandezze, per cui il Presidente Bush ha potuto commentare
la notizia della sua uccisione annunciando che giustizia era stata fatta,
ma questo, naturalmente, non autorizzava a fare del suo corpo un trofeo.
L’Iraq è un paese in guerra, certo (anche se qualcuno crede, stranamente,
che ci si possano mantenere dei militari in missione di pace) ma una guerra
caratterizzata, da una parte come dall’altra, da episodi del genere rivela
una sua crudele specificità, un livello di disumanità, su cui può valere
la pena, ogni tanto, di riflettere. Attila, se non altro, non diceva
di essere lì per difendere la democrazia.
11.06.’06