Esibizioni

La caccia | Trasmessa il: 06/11/2006




Anche se Achille con il corpo di Ettore fa di peggio, l’esposizione della testa mozzata del nemico vinto in battaglia non è usanza diffusa nel mondo greco romano, né fa parte, in linea di principio, della cultura delle popolazioni germaniche che si insediarono in Occidente dopo la crisi dell’impero.  Quella macabra consuetudine, già attestata nella Cina classica, fu cara particolarmente all’Asia centrale, a quelle popolazioni nomadi e ai loro barbarici condottieri: sappiamo che la praticarono con larghezza gli Attila, i Gengis Khan, i Tamerlano e altri temibili signori delle steppe.  I turchi ottomani, che con quell’ambiente avevano non poche relazioni e affinità, mantennero la pratica in uso fino agli albori dell’era contemporanea.   Per la precisione, i generali del Sultano di Costantinopoli non esponevano la testa intera, che preferivano restasse attaccata al tronco del defunto: ai nemici caduti veniva prelevata la pelle del volto e della fronte, completa di cuoio capelluto, che veniva poi ricostruita su una base neutra e accuratamente impagliata.  La procedura può sembrare abbastanza raccapricciante, ma aveva, se non altro, il vantaggio di togliere alla cerimonia dell’esposizione molte delle sue caratteristiche cruente e di permettere di prolungarla nel tempo.  Che tutto questo, poi, esprimesse soltanto una volontà di autoglorificazione militare o non riflettesse piuttosto qualche antica ritualità religiosa può essere materia di dibattito.   Lo sparagmós, il dilaniamento rituale della vittima, ci è noto dai culti orfici e dionisiaci – ricorderete tutti il passaggio delle Baccanti di Euripide in cui le donne di Tebe innalzano su una picca il capo di Penteo – e quei culti rimandano, a loro volta, a una cultura sciamanica che nell’Asia centrale e settentrionale aveva appunto il proprio luogo di origine.

       Nessuna motivazione del genere, naturalmente, può essere rintracciata nella decisione del Pentagono di riprendere e perfezionare il sistema ottomano, esibendo sotto forma di ingrandimento fotografico la testa di Abu Musab al-Zarqawi, il leader islamico da poco abbattuto in Iraq.  L’immagine di un portavoce dell’esercito americano che indica, con una specie di bacchetta da aula scolastica, il primo piano incorniciato della faccia del morto ancora coperta di sangue, come l’abbiamo vista in televisione e in prima pagina su tutti i quotidiani di venerdì scorso, risponde, evidentemente, a delle necessità di puro ordine propagandistico: in primis quella di assicurare a un’opinione pubblica locale non propriamente convinta, agli alleati malfermi, ai leader incerti e ai vari oppositori potenziali che quel nemico tanto temibile, quel feroce combattente la cui popolarità era così minacciosamente dilagata e sulla cui eliminazione ci si era più volte impegnati senza successo, era stato effettivamente tolto di mezzo.  Un gesto impietoso e incompatibile con gli standard correnti di civiltà, che basterebbe da solo a rivelare con drammatica evidenza quanto poco quegli standard siano tenuti in conto nel conflitto irakeno.  Perché sarà sicuramente stato, questo al-Zarqawi, un personaggio brutale, responsabile di crudeli attentati terroristici, della decapitazione di ostaggi e di altre innumerevoli nefandezze, per cui il Presidente Bush ha potuto commentare la notizia della sua uccisione annunciando che giustizia era stata fatta, ma questo, naturalmente, non autorizzava a fare del suo corpo un trofeo.  L’Iraq è un paese in guerra, certo (anche se qualcuno crede, stranamente, che ci si possano mantenere dei militari in missione di pace) ma una guerra caratterizzata, da una parte come dall’altra, da episodi del genere rivela una sua crudele specificità, un livello di disumanità, su cui può valere la pena, ogni tanto, di riflettere.  Attila, se non altro, non diceva di essere lì per difendere la democrazia.

                             11.06.’06