Ho recentemente scoperto, cari ascoltatori, di appartenere
a un partito: quello, pensate un po’, degli “irriducibili”. Lo
ho appreso dal “Corriere della sera” di martedì ultimo scorso, che, in
uno strillo in prima pagina, puntualmente ripreso da un ampio servizio
all’interno, introduce nel dibattito ideologico nazionale la nuova categoria
dei “pacifisti irriducibili”. Brutta gente, eh, che non crede
all’effetto salvifico delle elezioni in Iraq, che le giudica “una farsa”
ed è convinta che in quel paese “non cambierà nulla”. Sono, specifica
l’occhiello, “cattolici e intellettuali di sinistra”, con la sola eccezione
citata, non è chiaro perché, del professor Alberto Asor Rosa. Ed
è chiaro dal contesto che il loro giudizio non è tale da poter essere
condiviso dalle persone dabbene. Sono irriducibili, appunto, e tanto
basta.
Be’, io cattolico
non posso proprio dire di essere, giudicherei presuntuoso definirmi un
intellettuale di sinistra, ma sul “pacifista” posso concordare e sulle
elezioni irakene, in effetti, ho una quantità di riserve. Non mi
spingerei, forse, a definirle una “farsa”, perché da quelle parti evidentemente
c’è ben poco da ridere, ma che da una consultazione elettorale svoltasi
sotto occupazione armata ci sia da aspettarsi ben poco mi sembra tanto
ovvio che non riesco sinceramente a capire come si faccia a sostenere in
buona fede il contrario. Dunque, sono irriducibile anch’io e farete
bene, d’ora in poi, a tenerne conto.
D’altro canto, a
pensarci, che male c’è a essere irriducibile? L’aggettivo non è
in sé particolarmente nefando. A parte certi usi specialistici, come
in medicina, dove lo si riferisce a “fratture, lussazioni o ernie che
non possano essere rimesse in posizione normale”, o in matematica, in
cui lo si applica a “un polinomio che non può essere decomposto nel prodotto
di due polinomi di grado diverso da zero” – qualsiasi cosa significhi
– o a una frazione che, ridotta ai minimi termini, presenti numeratore
e denominatore primi fra loro, il termine indica evidentemente qualcosa
che non è facile ridurre a qualcosa d’altro e questo, se riferito a esseri
umani, dovrebbe essere inteso piuttosto come un complimento. L’ostinazione,
lo sappiamo, è una brutta cosa, ma “irriducibile” non significa semplicemente
“ostinato”: la sua gamma semantica copre una quantità di connotazioni
positive, dall’integrità morale alla fermezza nelle proprie opinioni e
la lealtà verso i principi che si professano. Irriducibili, in questo
senso, sono noti eroi nazionali come Amatore Sciesa e Francesco Ferrucci,
cui si intitolano vie e piazze e le cui gesta si imparano a scuola.
vero che Silvio Ceccato parla, in più passaggi della sua opera, di “metafore
irriducibili”, intendendo per tali quelle affermazioni che non è possibile
ridurre in operazioni senza incappare in una contraddizione (e quindi,
dicendola un po’ all’ingrosso, non significano niente), ma l’influenza
di quel pensatore sulla cultura nazionale non è stata tale da determinare
a livello di pubblicistica un’accezione automaticamente negativa del termine.
Per cui, tornando al nostro punto di partenza, il punto di vista
un pacifista irriducibile, senza offesa per il professor Asor Rosa, dovrebbe
essere apprezzato e considerato molto, ma molto di più di quello di un
suo ex compagno di fede che, di fronte allo spettacolo degli irakeni in
fila davanti ai seggi, abbia deciso, senza neanche sapere chi ha vinto
e con che programmi, di convertirsi alla teoria della guerra giusta e benefica.
Nel paese dei trasformisti e dei voltagabbana, chiunque sappia mantenersi
saldo nei propri convincimenti merita considerazione e rispetto.
Ahimè. Sappiamo
tutti che al “Corriere” non si occupano di semantica. Loro, nel
fare quel titolo, non pensavano né a Silvio Ceccato, né ai polinomi né
ad Amatore Sciesa. L’unico vero uso giornalistico accreditato dell’aggettivo
plurale “irrudicibili” negli ultimi dieci anni è quello che lo vede unito
in endiadi indissolubile con il sostantivo “terroristi”. Sono,
anche costoro, persone degne di rispetto, perché hanno rinunciato, per
coerenza con le proprie scelte, per discutibili che fossero, ai vantaggi
e alle impunità che questo nostro stato dalla debole fibra morale offre
in cambio di una delazione o di un’abiura e poi non a tutti coloro che
sono stati definiti in quel modo l’epiteto calza a pennello. Tuttavia,
proprio perché le loro scelte sono state di un certo tipo, non sono persone
con cui sia corretto paragonare i propri avversari politici, come quel
titolo, senza parere, indubbiamente fa. Affermazioni del tipo “chi
non sta con noi è un terrorista” potranno piacere ai magistrati di Brescia,
ma non dovrebbero avere diritto di cittadinanza in una società che si pretende
liberale. In particolare, non dovrebbero essere usate implicitamente,
in un titolo buttato lì, senza dibattito né discussione, non si sa se come
battuta di spirito o come illazione gratuita. No, chi si serve di
questi metodi, di rispetto proprio non ne merita.
06.02.’05