Sì, guardi, le assicuro che non scherzo,
è tutta colpa sua. Io non so se lei conosce Gozzano e quanto, ma
avrà fatto anche lei il liceo, suppongo, e le avranno raccontato le solite
menate, la signorina Felicita, l’amica di nonna Speranza, il rimpianto
dell’Ottocento, il contrasto tra l’ideale e i valori borghesi, le buone
cose di pessimo gusto… quelle cose lì. Guardi che, più o meno, sono
tutte balle. Dell’Ottocento in genere e delle buone cose di pessimo
gusto in particolare a Gozzano non gliene poteva importare di meno.
Sì, certo,era l’immagine che voleva
dare di sé, quella di un uomo sensibile, un po’ in crisi, un po’ a disagio
con lo Zeitgeist, uno che fingeva di essere buono, sentimentale e giovane
romantico, che è poi una mezza traduzione dal Jammes, sa, le jeune homme
des temps anciens, ma, ahimè, romantico proprio non era perché appunto
i tempi erano cambiati e allora doveva rifugiarsi nel vagheggiamento di
cose e immagini del passato, che in Piemonte è anche facile perché lì non
buttano via mai niente. Gli è andata bene, eh, perché in definitiva
sulle antologie sono finite solo quelle due poesie lì e solo per quelle
la gente lo conosce, ma, mi creda, sono davvero tutte balle. Era
abile, certo, dichiarava in anticipo che stava fingendo e così nessuno
poteva dargli del bugiardo e in un modo o nell’altro ci sono cascati tutti,
persino il Croce, ma in realtà era un perverso, un decadente e, soprattutto,
creda a me, un bugiardo nato. Anche nelle cose di poca importanza
non poteva fare a meno di raccontare le menzogne più invereconde: lo sa
che si faceva chiamare “avvocato”, ma alla laurea in legge non ci era
arrivato nemmeno di striscio? E questo, in fondo, è niente. Il
fatto è che pensava a una cosa sola. Sì, proprio a quella. Provi
a dare un’occhiata alla raccolta completa e vedrà. Cerchi quella
poesia in cui l’Amalia Guglielminetti, povera donna, lo va a trovare nel
suo “rifugio” e lui se la intorta raccontandole di essersi ritirato dal
mondo, di avere spento il desiderio, di occuparsi solo di cristallografia
e di metamorfosi delle farfalle, che in soldoni vuol dire che con la poesia
ha chiuso e con i sentimenti anche, e poi, appena lei si lascia andare
un poco le salta addosso e scopano come ricci. O quell’altra in
cui è a spasso con un’amante un po’ sciupacchiata e incontrano una ragazzina
in bicicletta (un’amica di famiglia di lei, si figuri) e comincia subito
a pensare di farsela. Sì, d’accordo, non si esprime proprio così,
dice che gli piacerebbe discendere nel niente pel suo cammino umano ma
avere lei per mano perché è dolcesorridente, con la sua brava clausola
oraziana, che così i letterati la notano e sono tutti contenti, ma in sostanza
sta pensando di farsela. La chiama vergine apparita, che, d’accordo,
è solo una melensaggine preraffaelita, ma nella poesia italiana, mi creda,
quando uno dà della vergine a qualcuna che non sia la Madonna vuol dire
che un pensierino ce l’ha fatto e poi la definisce addirittura una via
tutta fiorita di gioie non mietute, che come complimento, lo ammetterà,
non lascia spazio all’immaginazione. Tanto è vero che la ragazzina,
che doveva essere bella sveglia, appena può salta sulla sua bicicletta
e ciao. E la storia della cocotte, la sa la storia della cocotte? Quando
racconta che da bambino andava a parlare di nascosto con una vicina di
casa un po’ zoccola perché aveva sentito dire che era una cocotte, appunto,
e non sapeva cosa voleva dire, ma era curioso? Col cavolo che non
lo sapeva, naturalmente. E Ketty, la povera Ketty, bel fiore del
carbone e dell’acciaio, nel senso che aveva un padre industriale a Baltimora,
una turista americana che incontra in India (o a Ceylon, non ricordo bene)
e lei gli dà un po’ di confidenza, così, in modo amichevole, come si usava
allora tra gente civile che s’incontrava in viaggio, e lui, naturalmente,
le si butta addosso… Turiste, ragazzine, poetesse: gli andavano
bene tutte, ci stessero o non ci stessero. Le assicuro, era un vero
pericolo pubblico.
Sì, va bene, so già quello che sta per
dire. È tutto bello, tutto interessante, ma a lei di Guido Gozzano
non gliene importa più di tanto. In un certo senso la capisco. Ma
mi stia a sentire un momento, devo ben spiegarglielo che è stata tutta
colpa sua, no? Vede, noi quest’anno in classe abbiamo letto appunto
Ketty. Non è la mia preferita e, veramente, avrei preferito Una risorta,
che è quella della Guglielminetti e delle crisalidi, ma sull’antologia
non c’era, non l’ho mai trovata su una antologia, mentre Ketty, ogni
tanto, capita, non ho mai capito perché, visto che la situazione è abbastanza
osée, con lei che qualche amico esplora che l’esplora e tutto il resto,
ma in fondo ormai siamo nel 2000 e poi ci è citato Leopardi, quando lei
gli chiede quale sia il più bel verso di un poeta italiano e lui cita appunto
Leopardi, il Consalvo, due cose belle ha il mondo, amore e morte, tanto
per fingere una volta di più di essere romantico, e poi prende per il culo
D’Annunzio, perché lei, oltre a tutto, fa collezione di ciocche di capelli
di personaggi famosi e se ne fa promettere una di D’Annunzio, che, naturalmente,
lo sanno tutti, era pelato come una palla da biliardo, e a quelli che fanno
le antologie piacciono i poeti che citano degli altri poeti (anche se li
prendono per il culo). In realtà piacciono anche agli studenti, perché
così anche il più imbecille tra loro riesce a fare i suoi bravi riferimenti
ed è noto a tutti che senza riferimenti, a scuola, non c’è salvezza, ma
questo, ha assolutamente ragione, non c’entra. Il fatto è che abbiamo
letto Ketty: all’inizio dell’anno, perché il novecento lo faccio sempre
all’inizio dell’anno e lo so anch’io che non si dovrebbe, ma se aspettassi
di arrivarci progressivamente, prima il romanticismo, poi la scapigliatura,
quindi il verismo, alla fine il novecento non lo faremmo mai, ed era stato
davvero un successo. I ragazzi avevano sghignazzato per nascondere
l’imbarazzo e alle ragazze era piaciuto manifestamente il finale, con
lui che le si butta addosso e lei che sui confini ben contesi ancora ben
si difende con le mani tozze al pugilato esperte, perché a Baltimora ha
un cugino che l’attende a giuste nozze, e non perché in una situazione
del genere nessuna di loro avesse la benché minima propensione a difendersi,
mi creda, ma perché alla loro età il problema di darla o non darla e a
chi darla, nonostante tutto, interessa sempre e mentre spiegavo era tutta
una risatina.
Va bene, va bene, mi sbrigo. Dunque,
avevamo fatto il Gozzano e stavamo andando avanti con il novecento (di
solito cerco di fare un’ora di novecento, una di ottocento e una di Dante,
se si riesce a infilarcelo), dovevamo essere arrivati più o meno agli Ermetici,
sarà stato gennaio, quando mi è arrivata quella maledetta e-mail. Una
e-mail normalissima, con i soliti dati, sa, una cosa come Date: Mon, 17
Jan 2000 20:10:35 +0200 – X-MSMail-Priority: Normal – X-Mailer: Microsoft
Outlook Express 5.00.2919.6600 – X-MimeOLE: Produced By Microsoft
MimeOLE V5.00.2919.6600, le dico dei numeri a caso ma lei mi capisce, naturalmente,
l’indirizzo era il mio, niente Subject, il From era “Ketty” ketty@unproviderqualsiasidiquelligratis.it,
la firma era sempre Ketty e il testo diceva, si figuri un po’, “io non
mi difenderei”.
Non era proprio una proposta indecente,
capisce. Certo, il riferimento, in sé, era chiarissimo: chi me l’aveva
spedito aveva a che fare con la quinta, naturalmente; si identificava,
o pretendeva di identificarsi con la Ketty della poesia e mi invitava a
farmi avanti, ma il testo, in sé e per sé, era soltanto malizioso. Niente
di più di una strizzatina d’occhi, di una risatina allusiva in forma elettronica.
Probabilmente era soltanto uno scherzo, uno scherzo cui non sarebbe
stato saggio dare peso, come non si dà peso a un biglietto o a una telefonata
anonima (che sono cose che capitano a tutti, perché l’idea di fare uno
scherzo al prof alligna sempre tra quelle teste vuote e poi non è neanche
detto che si tratti sempre di uno scherzo vero e proprio, dato che, duemila
o non duemila, con l’imprinting didattico e l’associazione con la figura
paterna non si scherza mai impunemente, ma allora è davvero consigliabile
lasciar perdere, a scanso di guai), solo che, per essere uno scherzo, il
mittente o la mittente aveva dovuto darsi piuttosto da fare. Certo,
oggi come oggi non c’è niente di più facile che fare un abbonamento gratuito
a Internet e farsi dare una casella di posta elettronica sotto il nome
che si vuole, se non è già occupato da qualcun altro, e anche procurarsi
il mio indirizzo non doveva essere stato particolarmente difficile, con
tutti gli elenchi e le liste che girano in rete, ma, insomma, un certo
sforzo avevano dovuto farlo. E l’anonimato era abbastanza garantito,
perché immagino che per la polizia o per un qualsiasi hacker di belle speranze
risalire da un indirizzo elettronico alle generalità del titolare sia la
cosa più facile del mondo, ma uno come me, ovviamente, non sa neanche da
che parte cominciare, per cui, di scoprire chi mi aveva mandato il messaggio
non se ne parlava neanche. Insomma, uno scherzo idiota, ma realizzato
piuttosto bene. Da restarci ammirati per la perizia tecnica dimostrata,
più che lasciarsi impressionare.
In effetti, non mi sono lasciato impressionare
per niente. Figuriamoci: ketty@losailcazzo.it, io non mi difenderei.
Tanto per cominciare, da me non c’è bisogno di difendersi, nel
senso che, a differenza di Gozzano, io non mi butto addosso a nessuno.
Non alle studentesse, in particolare. E poi non sono l’ultimo
arrivato. Ho pratica di scuola, di classi, di scherzi, di studentesse
e persino – un po’ – di proposte sconvenienti. Lo sapevo benissimo
che di fronte a faccende del genere la cosa migliore è fare finta di niente.
Per cui ho fatto finta di niente. Il
giorno dopo, in classe, non ho battuto ciglio. C’era il canto di
Cacciaguida da leggere e se lo sono sorbiti da cima a fondo, profezia compresa,
senza pietà. Non ho neanche fatto un accenno a Internet e alla posta
elettronica, né, d’altronde, lo hanno fatto loro. E sfido io: il
primo che avesse fatto riferimento all’informatica in genere si sarebbe
tradito senza remissione. Ma erano troppo furbi, quelle carogne.
E in ogni caso la quinta è una classe sperimentale di indirizzo,
appunto, informatico tecnologico e un’infarinatura della materia dovevano
averla, più o meno, tutti.
Comunque di messaggi me ne è arrivato
subito un altro. E un terzo. E un quarto. E un quinto.
Tutti senza Subject, tutti from Ketty e tutti esprimevano, mutatis
mutandis, lo stesso concetto. Il secondo diceva, se ricordo bene,
“non avere paura”. Il terzo citava Dante, “amor che a niuno amato
amar perdona”, con un errore perché non c’è scritto “niuno”, ma “nullo”,
naturalmente, ma da uno studente, o da una studentessa, non ci si può aspettare
altro. Il quarto mi esortava a rispondere. Naturalmente
non ho risposto, ma le assicuro che cominciavo a essere piuttosto nervoso.
Ora, più o meno all’epoca del quinto
messaggio c’erano stati gli scrutini del primo quadrimestre. Ne
avevo approfittato per informarmi dal collega di informatica su come se
la cavavano quelli di quinta con le comunicazioni elettroniche e lui mi
aveva assicurato che, salvo eccezioni, nel complesso lì dentro non c’era
nessuno in grado di distinguere un computer da un tetrametro trocaico e
che sarebbe stato un gran bene per il paese se si fossero dedicati in massa
all’agricoltura. Tutto normale, dunque. Cerano le eccezioni,
però. Eccezioni rappresentate, oltre che dal solito Campironi, il
migliore della classe, un tipo di secchia antipaticissimo e saputello assai,
ma molto serio e ossequioso, per cui lo si poteva scartare senza esitazione
dal novero dei sospetti, dalla Varalonga, dalla Sallotino e dalla Romildi.
Della Varalonga, francamente, non me lo sarei mai aspettato, trattandosi
di una creatura che sul piano scientifico non sembrava in grado di esprimere
il meglio di sé, anche se per le belle lettere, e la poesia in particolare,
dimostrava un certo svenevole interesse sentimentale. Le altre erano due
discrete secchie anche loro, ma un po’ meno affidabili di Campironi, nel
senso che erano convinte di essere chissà che e, nella consapevolezza di
essere nella manica del corpo docente al completo, si davano una quantità
di arie con tutti. La Sallotino era un tipo vivace, una brunetta
piuttosto disinvolta, intelligentina, sempre disposta a fare letture, ricerche,
esercitazioni sui temi più strani e con l’unico difetto di esagerare,
ogni tanto, nel mettersi in mostra. La Romildi era la classica bruttona
simpatica, ma sapeva il fatto suo, dominava le materie con disinvoltura
e aveva una straordinaria capacità di far filare chiunque come voleva lei.
Erano molto amiche fra di loro e guardavano i compagni di classe
un po’ dall’alto in basso. Ed erano, nel complesso, le tre candidate
ideali al ruolo di autrici di messaggi provocatori.
Nel quinto messaggio la mia supposta
corrispondente mi informava di essere bionda. E nel sesto precisava,
piuttosto laconicamente, “dappertutto”.
Ora di chiome biondicce, castano chiare
e vagamente camimollose in quella classe ce n’erano parecchie, ma l’unica
che meritasse di essere definita una bionda, nel senso autentico della
parola, era proprio la Varalonga. Era anche l’unica, a quanto potevo
giudicare, i cui capelli sembrassero di un colore abbastanza naturale da
permettere di supporla bionda dappertutto. Ed era, più in generale,
un gran pezzo di figliola: alta, flessuosa, con delle gambe che non finivano
mai e tutti gli attributi del caso: una di quelle giovani naturalmente
destinate a essere al centro delle cupidigie dell’intera comunità scolastica.
Docenti inclusi.
E la Varalonga, adesso me lo ricordavo,
era stata una di quelle che aveva ridacchiato di più quando avevano letto
Gozzano.
Oh Dio. E se quelle e-mail fossero
state delle proposte autentiche e me le avesse mandate la Varalonga?
Sorvolerò sul contenuto del settimo,
dell’ottavo e del nono messaggio. Erano di carattere spiccatamente
personale. Chiunque li avesse compilati dimostrava, se non altro,
di non soffrire di inibizioni. Forniva una quantità di particolari
assolutamente non necessari e concludeva invariabilmente con l’invito
a rispondere.
Sì, col cavolo che avrei risposto.
D’altronde…
D’altronde da quei maledetti messaggi
cominciavo a essere ossessionato. Arrivavano con cadenza irregolare,
uno o due alla settimana, e ben presto mi ero reso conto che da quella
cadenza avevo cominciato a dipendere psicologicamente. Quando aprivo
la posta elettronica e non ne trovavo uno mi sentivo, assurdamente, deluso.
Li aspettavo, in effetti, con una specie di avidità che sapevo per
primo essere assolutamente fuori luogo.
E siccome ormai mi ero convinto, senza
alcuna vera pezza giustificativa, che a mandarmeli fosse davvero la Varalonga,
dovevo fare uno sforzo da bestia, in classe, per non concentrare visibilmente
la mia attenzione su di lei e sulle sue amiche.
Il dodicesimo messaggio consisteva in
una sola parola, “Esplorami” (un’altra maledetta citazione da Ketty),
e conteneva un attachment. Un’immagine formato TIF che, una volta
aperta, si era rivelata per la fotografia di un pregevole paio di gambe,
dalla coscia alla caviglia. Non avrei saputo dire, così sui due piedi,
se fossero le gambe della Varalonga, ma ne avevano tutta l’aria.
Inutile mettersi a chiedere in classe
chi disponesse di uno scanner o di una camera digitale. Lo avevo
già fatto un’altra volta, l’anno prima, quando stavamo organizzando una
ricerca interdisciplinare in rete e avevo scoperto, con un certo stupore,
che lo scanner ce l’avevano almeno in quindici. E di camere digitali
ne avevo visto parecchie in funzione durante la gita scolastica, sempre
l’anno scorso. E poi c’era sempre il laboratorio di informatica,
che chiunque, con qualche ragionevole precauzione, poteva utilizzare…
Insomma, imbarcarmi in un’indagine non mi sarebbe servito a niente
e decisi di non provarci nemmeno.
Nel mese successivo mi arrivò una foto
per settimana. Tutte dello stesso tipo. L’attachment. Una
mano. Un braccio. La caviglia. La coscia, con l’attaccatura
del gluteo. La parte superiore del seno… Un mosaico, insomma,
un autentico mosaico di parti femminili. Niente di porno, per carità,
nulla di veramente sconveniente, ma quanto bastava a innervosire un onesto
insegnante. E sempre lo stesso messaggio. Esplorami. Esplorami.
Esplorami, pezzo di deficiente, non vedi che cosa ti stai perdendo?
Il tutto, a pensarci bene, era molto
gozzaniano. Sa, una somma di particolari, uno indipendente dall’altro,
come Loreto impagliato, appunto, e il busto di Alfieri e quello di Napoleone
e i fiori in cornice, certo, e qualche raro balocco e gli scrigni fatti
di valve, gli oggetti col monito “salve”… l’elenco lo conoscerà
anche lei, particolari staccati, senza il minimo tentativo di collegarli
in un quadro d’insieme. In fondo, era solo una provocazione, esattamente
come lo era stata, sul piano letterario, quella di Guido, e io avrei fatto
un gran bene a lasciarla cadere, proprio come la cultura italiana del primo
Novecento ha lasciato cadere tutto il crepuscolarismo, che, di fatto, negli
svolgimenti successivi non ha avuto nessuna importanza, o quasi. Se
qualcuno si ostinava a mandarmi per posta elettronica degli attachment
formato TIF esibenti qualche pezzo scelto di anatomia femminile, perché
avrei dovuto lamentarmi? Accettare grato, dovevo, scaricare, portare
a casa e sbrigarmi a finire il programma che oramai mancavano solo due
mesi.
Facile. Un mese fa mi è arrivato
l’ultimo e-mail. La foto acclusa rappresentava un pregevole ombelico
e il testo mi informava che se volevo vedere tutta la creatura inn questione
dovevo proprio rispondere. Proprio così, alla lettera. “Se
mi vuoi vedere tutta, devi proprio rispondere”. Figuriamoci, mi
sono detto, spegnendo il computer e apprestandomi a correggere una pigna
di compiti in classe. Se si aspettava che rispondessi, poteva toglierselo
dalla testa.
E non mi è arrivato più niente. Un
giorno dopo l’altro, controllavo la posta e non c’era niente. Niente
messaggi firmati Ketty. Niente fotografie. Niente provocazioni.
Solo le solite cose, le e-mail degli amici, le catene di Sant’Antonio,
i mantra del Dalai Lama, gli aida a las mujeres del Afghanistan e quant’altro
circola in rete. Ero sempre più deluso e, chissà perché, sempre più
innervosito. Evidentemente Ketty aveva deciso di fare sul serio:
se non le avessi risposto non mi avrebbe più mandato niente. Desolatamente
niente.
Ho resistito quasi un mese. Poi,
l’altro giorno, le ho risposto. Ho richiamato l’ultimo messaggio,
ho premuto il Reply, e ho scritto due righe. Mi serviva una citazione
che senza essere particolarmente compromettente fosse un filino allusiva
e alla fine mi sono venuti in mente tre versi di Cardarelli (se sono di
Cardarelli) che facevano proprio al caso. “Oh sì” ho scritto “l’animale
sarà / abbastanza ignaro / da non morire prima di toccarti”. Non
era una citazione di prima mano, perché Cardarelli non l’ho mai letto
e chissà dove saltavano fuori, ma mi sembravano adattissimi all’occasione.
Non sono stato a pensarci troppo, ho fatto send e via.
La risposta è arrivata il giorno dopo.
From Ketty @ eccetera, subject niente, X-MSMail-Priority: Normal
– X-Mailer: Microsoft Outlook Express numero questo e quello – X-MimeOLE:
Produced By Microsoft MimeOLE eccetera eccetera, testo: “Eccomi,
amore, sono tutta tua”. Attachment: c:\eudora\attach\guardami.tif.
“Guardami”. Era, in un certo
senso, il momento della verità. Ho respirato a fondo e ho fatto click.
È successo di tutto. Una quantità
di colori, di lettere impazzite, di immagini che prendevano vertiginosamente
l’una il posto dell’altra, una foto di Gozzano, il bacio di Klimt, la
foto di gruppo della gita di classe dell’anno scorso, un fotogramma con
i fratelli Marx, il manifesto del Che, un titolo di giornale “Molestie
sessuali al liceo – sotto accusa il prof di italiano”… poi il
display è diventato nero.
Ed è restato tale. Sono ventiquattro
ore che smanetto, ma non c’è niente da fare. Il mio computer non
risponde più ai comandi.
Mi avevano mandato un virus, quei maledetti.
Un virus anonimo e ignoto, che annerisce inesorabilmente lo schermo
e blocca mouse e tastiera, con il risultato che non ci si può fare assolutamente
niente.
Quando il mattino dopo mi sono ripresentato
in classe, pallido e con gli occhi pesti, perché avevo passato tutta la
notte cercando di ristabilire un qualche contatto, sulla cattedra c’era
una copia delle poesie di Gozzano, la vecchia edizione BUR a cura di Giorgio
Barbieri Squarotti. E tutti erano seduti al loro posto, con un’aria
da angioletti che veniva voglia di stenderli a fucilate. Tutti al
loro posto tranne Campironi, che sedeva tutto tronfio in mezzo alle ragazze,
tra la Sallotino e la Romildi, che se lo coccolavano indecorosamente, mentre
la Varalonga, in pantaloni e maglietta neri e occhialoni da sole, era ostensibilmente
intenta a sfogliare delle fotografie e gli altri avevano tutti una certa
arietta consapevole e compiaciuta.
Allora ho capito tutto, come Rigoletto
quando torna a palazzo la mattina dopo il rapimento di Gilda. Il colpo
lo avevano fatto tutti. Tutti insieme, anche se evidentemente il
tecnico della faccenda era stato quel Giuda di Campironi. E dire
che io Campironi l’avevo sempre giudicato lo studente più innocuo, più
mite, più affidabile che mi fosse mai capitato. Mai fidarsi degli
studenti troppo ossequiosi, l’ho sempre detto.
Sì, d’accordo, non avrei dovuto lasciarmi
andare in quel modo. Ma che ci vuol fare, dottore: uno resiste, resiste
e alla fine esplode. Specialmente se gli bloccano il computer. E
poi, glielo ho già detto all’inizio, non è stata colpa mia. È stata
tutta inesorabilmente colpa di Guido Gozzano.
Sì, sì, firmo tutto, stia sicuro, non
c’è nessun problema. Ma mi dica, lei non conosce per caso qualcuno
che se ne intende davvero di virus?
È tutta colpa di Guido Gozzano, in Thriller sex, ES, 2000