È tutta colpa di Guido Gozzano

Racconti | È tutta colpa di Guido Gozzano, in Thriller sex, ES, 2000


Sì, guardi, le assicuro che non scherzo, è tutta colpa sua.  Io non so se lei conosce Gozzano e quanto, ma avrà fatto anche lei il liceo, suppongo, e le avranno raccontato le solite menate, la signorina Felicita, l’amica di nonna Speranza, il rimpianto dell’Ottocento, il contrasto tra l’ideale e i valori borghesi, le buone cose di pessimo gusto… quelle cose lì.  Guardi che, più o meno, sono tutte balle.   Dell’Ottocento in genere e delle buone cose di pessimo gusto in particolare a Gozzano non gliene poteva importare di meno.

Sì, certo,era l’immagine che voleva dare di sé, quella di un uomo sensibile, un po’ in crisi, un po’ a disagio con lo Zeitgeist, uno che fingeva di essere buono, sentimentale e giovane romantico, che è poi una mezza traduzione dal Jammes, sa, le jeune homme des temps anciens, ma, ahimè, romantico proprio non era perché appunto i tempi erano cambiati e allora doveva rifugiarsi nel vagheggiamento di cose e immagini del passato, che in Piemonte è anche facile perché lì non buttano via mai niente.  Gli è andata bene, eh, perché in definitiva sulle antologie sono finite solo quelle due poesie lì e solo per quelle la gente lo conosce, ma, mi creda, sono davvero tutte balle.  Era abile, certo, dichiarava in anticipo che stava fingendo e così nessuno poteva dargli del bugiardo e in un modo o nell’altro ci sono cascati tutti, persino il Croce, ma in realtà era un perverso, un decadente e, soprattutto, creda a me, un bugiardo nato.  Anche nelle cose di poca importanza non poteva fare a meno di raccontare le menzogne più invereconde: lo sa che si faceva chiamare “avvocato”, ma alla laurea in legge non ci era arrivato nemmeno di striscio?  E questo, in fondo, è niente.  Il fatto è che pensava a una cosa sola.  Sì, proprio a quella.  Provi a dare un’occhiata alla raccolta completa e vedrà.   Cerchi quella poesia in cui l’Amalia Guglielminetti, povera donna, lo va a trovare nel suo “rifugio” e lui se la intorta raccontandole di essersi ritirato dal mondo, di avere spento il desiderio, di occuparsi solo di cristallografia e di metamorfosi delle farfalle, che in soldoni vuol dire che con la poesia ha chiuso e con i sentimenti anche, e poi, appena lei si lascia andare un poco le salta addosso e scopano come ricci.  O quell’altra in cui è a spasso con un’amante un po’ sciupacchiata e incontrano una ragazzina in bicicletta (un’amica di famiglia di lei, si figuri) e comincia subito a pensare di farsela.  Sì, d’accordo, non si esprime proprio così, dice che gli piacerebbe discendere nel niente pel suo cammino umano ma avere lei per mano perché è dolcesorridente, con la sua brava clausola oraziana, che così i letterati la notano e sono tutti contenti, ma in sostanza sta pensando di farsela.  La chiama vergine apparita, che, d’accordo, è solo una melensaggine preraffaelita, ma nella poesia italiana, mi creda, quando uno dà della vergine a qualcuna che non sia la Madonna vuol dire che un pensierino ce l’ha fatto e poi la definisce addirittura una via tutta fiorita di gioie non mietute, che come complimento, lo ammetterà, non lascia spazio all’immaginazione.  Tanto è vero che la ragazzina, che doveva essere bella sveglia, appena può salta sulla sua bicicletta e ciao. E la storia della cocotte, la sa la storia della cocotte?  Quando racconta che da bambino andava a parlare di nascosto con una vicina di casa un po’ zoccola perché aveva sentito dire che era una cocotte, appunto, e non sapeva cosa voleva dire, ma era curioso?  Col cavolo che non lo sapeva, naturalmente.   E Ketty, la povera Ketty, bel fiore del carbone e dell’acciaio, nel senso che aveva un padre industriale a Baltimora, una turista americana che incontra in India (o a Ceylon, non ricordo bene) e lei gli dà un po’ di confidenza, così, in modo amichevole, come si usava allora tra gente civile che s’incontrava in viaggio, e lui, naturalmente, le si butta addosso…   Turiste, ragazzine, poetesse: gli andavano bene tutte, ci stessero o non ci stessero.  Le assicuro, era un vero pericolo pubblico.

Sì, va bene, so già quello che sta per dire.  È tutto bello, tutto interessante, ma a lei di Guido Gozzano non gliene importa più di tanto.  In un certo senso la capisco.  Ma mi stia a sentire un momento, devo ben spiegarglielo che è stata tutta colpa sua, no?  Vede, noi quest’anno in classe abbiamo letto appunto Ketty.  Non è la mia preferita e, veramente, avrei preferito Una risorta, che è quella della Guglielminetti e delle crisalidi, ma sull’antologia non c’era, non l’ho mai trovata su una antologia, mentre Ketty, ogni tanto, capita, non ho mai capito perché, visto che la situazione è abbastanza osée, con lei che qualche amico esplora che l’esplora e tutto il resto, ma in fondo ormai siamo nel 2000 e poi ci è citato Leopardi, quando lei gli chiede quale sia il più bel verso di un poeta italiano e lui cita appunto Leopardi, il Consalvo, due cose belle ha il mondo, amore e morte, tanto per fingere una volta di più di essere romantico, e poi prende per il culo D’Annunzio, perché lei, oltre a tutto, fa collezione di ciocche di capelli di personaggi famosi e se ne fa promettere una di D’Annunzio, che, naturalmente, lo sanno tutti, era pelato come una palla da biliardo, e a quelli che fanno le antologie piacciono i poeti che citano degli altri poeti (anche se li prendono per il culo).  In realtà piacciono anche agli studenti, perché così anche il più imbecille tra loro riesce a fare i suoi bravi riferimenti ed è noto a tutti che senza riferimenti, a scuola, non c’è salvezza, ma questo, ha assolutamente ragione, non c’entra.  Il fatto è che abbiamo letto Ketty: all’inizio dell’anno, perché il novecento lo faccio sempre all’inizio dell’anno e lo so anch’io che non si dovrebbe, ma se aspettassi di arrivarci progressivamente, prima il romanticismo, poi la scapigliatura, quindi il verismo, alla fine il novecento non lo faremmo mai, ed era stato davvero un successo.   I ragazzi avevano sghignazzato per nascondere l’imbarazzo e alle ragazze era piaciuto manifestamente il finale, con lui che le si butta addosso e lei che sui confini ben contesi ancora ben si difende con le mani tozze al pugilato esperte, perché a Baltimora ha un cugino che l’attende a giuste nozze, e non perché in una situazione del genere nessuna di loro avesse la benché minima propensione a difendersi, mi creda, ma perché alla loro età il problema di darla o non darla e a chi darla, nonostante tutto, interessa sempre e mentre spiegavo era tutta una risatina.

Va bene, va bene, mi sbrigo.  Dunque, avevamo fatto il Gozzano e stavamo andando avanti con il novecento (di solito cerco di fare un’ora di novecento, una di ottocento e una di Dante, se si riesce a infilarcelo), dovevamo essere arrivati più o meno agli Ermetici, sarà stato gennaio, quando mi è arrivata quella maledetta e-mail.  Una e-mail normalissima, con i soliti dati, sa, una cosa come Date: Mon, 17 Jan 2000 20:10:35 +0200 – X-MSMail-Priority: Normal – X-Mailer: Microsoft Outlook Express 5.00.2919.6600 –  X-MimeOLE: Produced By Microsoft MimeOLE V5.00.2919.6600, le dico dei numeri a caso ma lei mi capisce, naturalmente, l’indirizzo era il mio, niente Subject, il From era “Ketty” ketty@unproviderqualsiasidiquelligratis.it, la firma era sempre Ketty e il testo diceva, si figuri un po’, “io non mi difenderei”.

Non era proprio una proposta indecente, capisce.  Certo, il riferimento, in sé, era chiarissimo: chi me l’aveva spedito aveva a che fare con la quinta, naturalmente; si identificava, o pretendeva di identificarsi con la Ketty della poesia e mi invitava a farmi avanti, ma il testo, in sé e per sé, era soltanto malizioso.  Niente di più di una strizzatina d’occhi, di una risatina allusiva in forma elettronica.  Probabilmente era soltanto uno scherzo, uno scherzo cui non sarebbe stato saggio dare peso, come non si dà peso a un biglietto o a una telefonata anonima (che sono cose che capitano a tutti, perché l’idea di fare uno scherzo al prof alligna sempre tra quelle teste vuote e poi non è neanche detto che si tratti sempre di uno scherzo vero e proprio, dato che, duemila o non duemila, con l’imprinting didattico e l’associazione con la figura paterna non si scherza mai impunemente, ma allora è davvero consigliabile lasciar perdere, a scanso di guai), solo che, per essere uno scherzo, il mittente o la mittente aveva dovuto darsi piuttosto da fare.  Certo, oggi come oggi non c’è niente di più facile che fare un abbonamento gratuito a Internet e farsi dare una casella di posta elettronica sotto il nome che si vuole, se non è già occupato da qualcun altro, e anche procurarsi il mio indirizzo non doveva essere stato particolarmente difficile, con tutti gli elenchi e le liste che girano in rete, ma, insomma, un certo sforzo avevano dovuto farlo.  E l’anonimato era abbastanza garantito, perché immagino che per la polizia o per un qualsiasi hacker di belle speranze risalire da un indirizzo elettronico alle generalità del titolare sia la cosa più facile del mondo, ma uno come me, ovviamente, non sa neanche da che parte cominciare, per cui, di scoprire chi mi aveva mandato il messaggio non se ne parlava neanche.  Insomma, uno scherzo idiota, ma realizzato piuttosto bene.   Da restarci ammirati per la perizia tecnica dimostrata, più che lasciarsi impressionare.

In effetti, non mi sono lasciato impressionare per niente.  Figuriamoci: ketty@losailcazzo.it, io non mi difenderei.   Tanto per cominciare, da me non c’è bisogno di difendersi, nel senso che, a differenza di Gozzano, io non mi butto addosso a nessuno.  Non alle studentesse, in particolare.  E poi non sono l’ultimo arrivato.  Ho pratica di scuola, di classi, di scherzi, di studentesse e persino – un po’ – di proposte sconvenienti.  Lo sapevo benissimo che di fronte a faccende del genere la cosa migliore è fare finta di niente.

Per cui ho fatto finta di niente.  Il giorno dopo, in classe, non ho battuto ciglio.  C’era il canto di Cacciaguida da leggere e se lo sono sorbiti da cima a fondo, profezia compresa, senza pietà.  Non ho neanche fatto un accenno a Internet e alla posta elettronica, né, d’altronde, lo hanno fatto loro.  E sfido io: il primo che avesse fatto riferimento all’informatica in genere si sarebbe tradito senza remissione.  Ma erano troppo furbi, quelle carogne.  E in ogni caso la quinta è una classe sperimentale di indirizzo, appunto, informatico tecnologico e un’infarinatura della materia dovevano averla, più o meno, tutti.

Comunque di messaggi me ne è arrivato subito un altro.  E un terzo.  E un quarto.  E un quinto.  Tutti senza Subject, tutti from Ketty e tutti esprimevano, mutatis mutandis, lo stesso concetto.  Il secondo diceva, se ricordo bene, “non avere paura”.  Il terzo citava Dante, “amor che a niuno amato amar perdona”, con un errore perché non c’è scritto “niuno”, ma “nullo”, naturalmente, ma da uno studente, o da una studentessa, non ci si può aspettare altro.  Il quarto  mi esortava a rispondere.   Naturalmente non ho risposto, ma le assicuro che cominciavo a essere piuttosto nervoso.

Ora, più o meno all’epoca del quinto messaggio c’erano stati gli scrutini del primo quadrimestre.  Ne avevo approfittato per informarmi dal collega di informatica su come se la cavavano quelli di quinta con le comunicazioni elettroniche e lui mi aveva assicurato che, salvo eccezioni, nel complesso lì dentro non c’era nessuno in grado di distinguere un computer da un tetrametro trocaico e che sarebbe stato un gran bene per il paese se si fossero dedicati in massa all’agricoltura.  Tutto normale, dunque.  Cerano le eccezioni, però.  Eccezioni rappresentate, oltre che dal solito Campironi, il migliore della classe, un tipo di secchia antipaticissimo e saputello assai, ma molto serio e ossequioso, per cui lo si poteva scartare senza esitazione dal novero dei sospetti, dalla Varalonga, dalla Sallotino e dalla Romildi.  Della Varalonga, francamente, non me lo sarei mai aspettato, trattandosi di una creatura che sul piano scientifico non sembrava in grado di esprimere il meglio di sé, anche se per le belle lettere, e la poesia in particolare, dimostrava un certo svenevole interesse sentimentale. Le altre erano due discrete secchie anche loro, ma un po’ meno affidabili di Campironi, nel senso che erano convinte di essere chissà che e, nella consapevolezza di essere nella manica del corpo docente al completo, si davano una quantità di arie con tutti.  La Sallotino era un tipo vivace, una brunetta piuttosto disinvolta, intelligentina, sempre disposta a fare letture, ricerche, esercitazioni sui temi più strani e con l’unico difetto di esagerare, ogni tanto, nel mettersi in mostra.  La Romildi era la classica bruttona simpatica, ma sapeva il fatto suo, dominava le materie con disinvoltura e aveva una straordinaria capacità di far filare chiunque come voleva lei.  Erano molto amiche fra di loro e guardavano i compagni di classe un po’ dall’alto in basso.  Ed erano, nel complesso, le tre candidate ideali al ruolo di autrici di messaggi provocatori.

Nel quinto messaggio la mia supposta corrispondente mi informava di essere bionda.  E nel sesto precisava, piuttosto laconicamente, “dappertutto”.

Ora di chiome biondicce, castano chiare e vagamente camimollose in quella classe ce n’erano parecchie, ma l’unica che meritasse di essere definita una bionda, nel senso autentico della parola, era proprio la Varalonga.  Era anche l’unica, a quanto potevo giudicare, i cui capelli sembrassero di un colore abbastanza naturale da permettere di supporla bionda dappertutto.  Ed era, più in generale, un gran pezzo di figliola: alta, flessuosa, con delle gambe che non finivano mai e tutti gli attributi  del caso: una di quelle giovani naturalmente destinate a essere al centro delle cupidigie dell’intera comunità scolastica.  Docenti inclusi.

E la Varalonga, adesso me lo ricordavo, era stata una di quelle che aveva ridacchiato di più quando avevano letto Gozzano.

Oh Dio.  E se quelle e-mail fossero state delle proposte autentiche e me le avesse mandate la Varalonga?

Sorvolerò sul contenuto del settimo, dell’ottavo e del nono messaggio.   Erano di carattere spiccatamente personale.  Chiunque li avesse compilati dimostrava, se non altro, di non soffrire di inibizioni.  Forniva una quantità di particolari assolutamente non necessari e concludeva invariabilmente con l’invito a rispondere.

Sì, col cavolo che avrei risposto.

D’altronde…

D’altronde da quei maledetti messaggi cominciavo a essere ossessionato.  Arrivavano con cadenza irregolare, uno o due alla settimana, e ben presto mi ero reso conto che da quella cadenza avevo cominciato a dipendere psicologicamente.  Quando aprivo la posta elettronica e non ne trovavo uno mi sentivo, assurdamente, deluso.  Li aspettavo, in effetti, con una specie di avidità che sapevo per primo essere assolutamente fuori luogo.

E siccome ormai mi ero convinto, senza alcuna vera pezza giustificativa, che a mandarmeli fosse davvero la Varalonga, dovevo fare uno sforzo da bestia, in classe, per non concentrare visibilmente la mia attenzione su di lei e sulle sue amiche.

Il dodicesimo messaggio consisteva in una sola parola, “Esplorami” (un’altra maledetta citazione da Ketty), e conteneva un attachment.  Un’immagine formato TIF che, una volta aperta, si era rivelata per la fotografia di un pregevole paio di gambe, dalla coscia alla caviglia.  Non avrei saputo dire, così sui due piedi, se fossero le gambe della Varalonga, ma ne avevano tutta l’aria.

Inutile mettersi a chiedere in classe chi disponesse di uno scanner o di una camera digitale.  Lo avevo già fatto un’altra volta, l’anno prima, quando stavamo organizzando una ricerca interdisciplinare in rete e avevo scoperto, con un certo stupore, che lo scanner ce l’avevano almeno in quindici.  E di camere digitali ne avevo visto parecchie in funzione durante la gita scolastica, sempre l’anno scorso.  E poi c’era sempre il laboratorio di informatica, che chiunque, con qualche ragionevole precauzione, poteva utilizzare…  Insomma, imbarcarmi in un’indagine non mi sarebbe servito a niente e decisi di non provarci nemmeno.

Nel mese successivo mi arrivò una foto per settimana.  Tutte dello stesso tipo.  L’attachment.  Una mano.  Un braccio.  La caviglia.  La coscia, con l’attaccatura del gluteo.  La parte superiore del seno…  Un mosaico, insomma, un autentico mosaico di parti femminili.  Niente di porno, per carità, nulla di veramente sconveniente, ma quanto bastava a innervosire un onesto insegnante.  E sempre lo stesso messaggio.  Esplorami.  Esplorami.  Esplorami, pezzo di deficiente, non vedi che cosa ti stai perdendo?

Il tutto, a pensarci bene, era molto gozzaniano.  Sa, una somma di particolari, uno indipendente dall’altro, come Loreto impagliato, appunto, e il busto di Alfieri e quello di Napoleone e i fiori in cornice, certo, e qualche raro balocco e gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito “salve”…  l’elenco lo conoscerà anche lei, particolari staccati, senza il minimo tentativo di collegarli in un quadro d’insieme.  In fondo, era solo una provocazione, esattamente come lo era stata, sul piano letterario, quella di Guido, e io avrei fatto un gran bene a lasciarla cadere, proprio come la cultura italiana del primo Novecento ha lasciato cadere tutto il crepuscolarismo, che, di fatto, negli svolgimenti successivi non ha avuto nessuna importanza, o quasi.  Se qualcuno si ostinava a mandarmi per posta elettronica degli attachment formato TIF esibenti qualche pezzo scelto di anatomia femminile, perché avrei dovuto lamentarmi?  Accettare grato, dovevo, scaricare, portare a casa e sbrigarmi a finire il programma che oramai mancavano solo due mesi.

Facile.  Un mese fa mi è arrivato l’ultimo e-mail.  La foto acclusa rappresentava un pregevole ombelico e il testo mi informava che se volevo vedere tutta la creatura inn questione dovevo proprio rispondere.   Proprio così, alla lettera.  “Se mi vuoi vedere tutta, devi proprio rispondere”.  Figuriamoci, mi sono detto, spegnendo il computer e apprestandomi a correggere una pigna di compiti in classe.  Se si aspettava che rispondessi, poteva toglierselo dalla testa.

E non mi è arrivato più niente.  Un giorno dopo l’altro, controllavo la posta e non c’era niente.  Niente messaggi firmati Ketty.  Niente fotografie.  Niente provocazioni.  Solo le solite cose, le e-mail degli amici, le catene di Sant’Antonio, i mantra del Dalai Lama, gli aida a las mujeres del Afghanistan e quant’altro circola in rete.  Ero sempre più deluso e, chissà perché, sempre più innervosito.  Evidentemente Ketty aveva deciso di fare sul serio: se non le avessi risposto non mi avrebbe più mandato niente.  Desolatamente niente.

Ho resistito quasi un mese.  Poi, l’altro giorno, le ho risposto.  Ho richiamato l’ultimo messaggio, ho premuto il Reply, e ho scritto due righe.   Mi serviva una citazione che senza essere particolarmente compromettente fosse un filino allusiva e alla fine mi sono venuti in mente tre versi di Cardarelli (se sono di Cardarelli) che facevano proprio al caso.  “Oh sì” ho scritto “l’animale sarà / abbastanza ignaro / da non morire prima di toccarti”.  Non era una citazione di prima mano, perché Cardarelli non l’ho mai letto e chissà dove saltavano fuori, ma mi sembravano adattissimi all’occasione.  Non sono stato a pensarci troppo, ho fatto send e via.

La risposta è arrivata il giorno dopo.  From Ketty @ eccetera, subject niente, X-MSMail-Priority: Normal – X-Mailer: Microsoft Outlook Express numero questo e quello –  X-MimeOLE: Produced By Microsoft MimeOLE eccetera eccetera, testo:  “Eccomi, amore, sono tutta tua”.  Attachment: c:\eudora\attach\guardami.tif.

“Guardami”.  Era, in un certo senso, il momento della verità.  Ho respirato a fondo e ho fatto click.

È successo di tutto.  Una quantità di colori, di lettere impazzite, di immagini che prendevano vertiginosamente l’una il posto dell’altra, una foto di Gozzano, il bacio di Klimt, la foto di gruppo della gita di classe dell’anno scorso, un fotogramma con i fratelli Marx, il manifesto del Che, un titolo di giornale “Molestie sessuali al liceo – sotto accusa il prof di italiano”…  poi il display è diventato nero.

Ed è restato tale.  Sono ventiquattro ore che smanetto, ma non c’è niente da fare.  Il mio computer non risponde più ai comandi.

Mi avevano mandato un virus, quei maledetti.  Un virus anonimo e ignoto, che annerisce inesorabilmente lo schermo e blocca mouse e tastiera, con il risultato che non ci si può fare assolutamente niente.

Quando il mattino dopo mi sono ripresentato in classe, pallido e con gli occhi pesti, perché avevo passato tutta la notte cercando di ristabilire un qualche contatto, sulla cattedra c’era una copia delle poesie di Gozzano, la vecchia edizione BUR a cura di Giorgio Barbieri Squarotti.  E tutti erano seduti al loro posto, con un’aria da angioletti che veniva voglia di stenderli a fucilate.  Tutti al loro posto tranne Campironi, che sedeva tutto tronfio in mezzo alle ragazze, tra la Sallotino e la Romildi, che se lo coccolavano indecorosamente, mentre la Varalonga, in pantaloni e maglietta neri e occhialoni da sole, era ostensibilmente intenta a sfogliare delle fotografie e gli altri avevano tutti una certa arietta consapevole e compiaciuta.

Allora ho capito tutto, come Rigoletto quando torna a palazzo la mattina dopo il rapimento di Gilda. Il colpo lo avevano fatto tutti.  Tutti insieme, anche se evidentemente il tecnico della faccenda era stato quel Giuda di Campironi.  E dire che io Campironi l’avevo sempre giudicato lo studente più innocuo, più mite, più affidabile che mi fosse mai capitato.  Mai fidarsi degli studenti troppo ossequiosi, l’ho sempre detto.

Sì, d’accordo, non avrei dovuto lasciarmi andare in quel modo.  Ma che ci vuol fare, dottore: uno resiste, resiste e alla fine esplode.  Specialmente se gli bloccano il computer.  E poi, glielo ho già detto all’inizio, non è stata colpa mia.  È stata tutta inesorabilmente colpa di Guido Gozzano.

Sì, sì, firmo tutto, stia sicuro, non c’è nessun problema.  Ma mi dica, lei non conosce per caso qualcuno che se ne intende davvero di virus?

È tutta colpa di Guido Gozzano, in Thriller sex, ES, 2000