È interessante – non trovate? – che lo stesso giorno, giovedì 16
u. s., si sia avuta contemporaneamente notizia della sentenza del Consiglio
di Stato sulla liceità di esporre il Crocefisso nelle aule scolastiche
e quella delle proteste contro lo slittinista azzurro Gerhard Plankensteiner,
che, dopo aver vinto la medaglia di bronzo ai giochi olimpici, non solo
ha dichiarato di non conoscere le parole dell’inno di Mameli, ma si è
permesso di definirlo, in tono sprezzante, “quella canzone”. È
un tipico caso in cui, in due contesti a prima vista eterogenei, si ritrovano
delle argomentazioni dello stesso tipo, destinate inevitabilmente a rafforzarsi
a vicenda. I giudici della sesta sezione del massimo organo
della giustizia amministrativa hanno decretato, in sostanza, che il crocefisso
non è esclusivamente un simbolo religioso, ma “in una scuola svolge una
funzione simbolica educativa a prescindere dalla fede professata dagli
alunni”, perché “esprime l’origine religiosa dei valori che connotano
la civiltà italiana, che hanno impregnato tradizioni, modo di vivere, cultura
di un popolo” e in ogni caso “emergono dalle norme fondamentali della
nostra Costituzione”. E il loro punto di vista è del tutto analogo
a quello di chi ha osservato come, essendo il Plankensteiner italiano a
tutti gli effetti, nonostante il nome che porta, non può esimersi
dal rispetto dovuto a quell’inno, che, va da sé, non può essere considerato
una canzone qualsiasi. Tra quanti si sono espressi in tal senso,
si è segnalato un membro del parlamento, che si è detto umiliato all’idea
di “uno sportivo che rinnega il simbolo stesso della nostra identità nazionale
e dei suoi valori”.
In entrambi i casi, dunque, si tratta di un problema identità. Il
Crocefisso è visto come l’espressione dei valori generali in cui il nostro
popolo si riconosce in toto, atei, musulmani e laici volterriani compresi,
e l’Inno di Mameli pure e se uno è nato a Vipiteno, dunque al di qua del
confine, anche se lui preferirebbe dire di essere nato a Sterzing e vanta
degli antenati che, con ogni probabilità, consideravano Goffredo Mameli
un mestatore e il Risorgimento un moto eversivo, deve adattarsi a cantarlo
lo stesso, possibilmente con la mano sul cuore. Se no, restituisca
la medaglia. Prospettiva di fronte alla quale l’atleta ha dovuto
affrettarsi a dichiarare che, caspita, lui aveva solo scherzato e
Fratelli d’Italia, adesso che ci ripensa, gli è più caro di Ach du lieber
Augustin.
Ora, il ragionamento del Consiglio di Stato
è, come minimo, contraddittorio, perché è ovvio che il valore civile del
Crocefisso dipende tutto da quello religioso. Non sarebbe facile,
in caso contrario, capire quale modello di civiltà, quale proposta educativa
si possa rintracciare nell’immagine di un nostro simile inchiodato a una
croce e ivi lasciato a morire di disarticolazione, che in sé è uno dei
supplizi più atroci che la perversità umana abbia mai escogitato per i
devianti. Sotto l’apparenza di una innocua riproposizione del vieto
“perché non possiamo non dirci cristiani”, vi ci si riaffaccia
una tipica logica identitaria (la stessa sulla quale ci siamo intrattenuti
in questa sede un paio di settimane fa): quella per cui, visto che io e
te facciamo un “noi”, tu devi credere a quello cui credo io e il fatto
che il giornale dei vescovi abbia salutato la sentenza con un allegro “Per
non andare contro a noi stessi” è tutt’altro che tranquillizzante.
Quanto all’inno, non saprei dirvi per quali
motivi il velocissimo Plankensteiner abbia espresso – se davvero l’ha
espressa – la sua riluttanza a cantarlo. Forse perché è uomo
di gusti raffinati e proprio non sopporta sul piano estetico quelle parole
e quella musica (sul che sarebbe difficile dargli torto). Oppure
perché le espressioni antiaustriache che il testo, a leggerlo tutto, contiene
feriscono la sua sensibilità sudtirolese. O magari si è soltanto
sbagliato, inciampando, come capita a chi è di madrelingua tedesca, sulla
traduzione della parola Lied, che i nostri vicini germanici applicano
equanimamente ai canti più sublimi e alle canzonette più sguaiate.
Sono sicuro, però, che in tutti e tre i casi di riluttare il poveruomo
aveva pieno diritto: nella libertà di pensiero è compresa quella di giudicare
qualsivoglia prodotto culturale e nessun membro di una minoranza etnica
è tenuto, a norma di Costituzione, a sapere l’italiano. Purtroppo
il ragionamento, nella sua semplicità, sembra al di sopra delle capacità
di comprendere di chi preferisce ai rischi della libertà la sicurezza della
omologazione. Sono tempi difficili e l’idea di stringersi a corte,
come appunto il Mameli raccomandava, ha, se non altro, il vantaggio della
semplicità. Tanto è vero che può attirare chiunque: l’onorevole
di cui vi dicevo, in effetti, non viene né da Alleanza Nazionale né dagli
ex combattenti, ma ha un ruolo di un certo peso in uno dei partiti dell’opposizione.
Con la lista unitaria e il proporzionale senza preferenze può capitare
a ciascuno di noi di votarlo, anzi, di eleggerlo. Dimostrando, in
ultima analisi, come alla tradizione comune non si possa proprio sfuggire.
19.02.’06