Dorando 09

Atene | Dorando 09


    Vi confesserò che quando ieri ho varcato la porta del Museo Archeologico Nazionale, in Patisiòn, ero piuttosto inquieto. Capirete: quella istituzione è rimasta chiusa per più di tre anni, per una radicale ristrutturazione pre-olimpica, e non osavo immaginare che cosa, nell’ansia di modernizzazione che domina l’Atene di oggi, avrebbero potuto averne fatto. Una rinfrescatina era indispensabile, perché l’edificio ospita alcuni dei più straordinari manufatti della storia della umanità, dalle maschere d’oro di Micene allo Zeus del Sunio, ma, in sé, è sempre stato, come dire, un po’ sgarrupato: lo hanno costruito negli anni ’30 del secolo scorso, quando qui di soldi ne giravano pochini, e ha sempre avuto quell’aria tristanzuola degli edifici pubblici realizzati in economia. Ma a tutto si finisce per affezionarsi e all’idea di trovarmi davanti una esibizione di tipo californiano, tutta diorami, pannelli trasparenti e musiche in sottofondo, mi sentivo a disagio.

    Niente di tutto questo, per fortuna. I responsabili hanno dato prova di grande sobrietà. È tutto intonacato di fresco, naturalmente, con un nuovo impianto di aria condizionata, nuovi servizi, teche nuovissime molto funzionali e dovizia di informazioni sui reperti (anche se per leggere i relativi cartigli bisogna chinarsi fino a terra, quasi in atto di adorazione), ma dei temuti sconvolgimenti non c’è traccia. L’insieme è, al tempo stesso, funzionale e dignitoso. Non vi dico che sollievo.

    In effetti, se c’è un settore ad Atene affatto esente da biasimo, è proprio quello dei musei. Sono stati tutti rimessi a nuovo secondo i più impeccabili criteri scientifici e visitarli, oggi, è davvero un piacere. Le varie raccolte del museo Benaki, la collezione di arte cicladica della fondazione Gulandri, i capolavori di arte cristiana e bizantina che fino a pochi anni fa erano accatastati in disordine nella villa della Duchessa di Piacenza (perché ad Atene ha vissuto, ai primi del XIX secolo, un personaggio che, pur senza aver nulla a che fare con la città emiliana, portava quel titolo), hanno trovato, oggi, degnissime sedi. Basterebbe questo per essere eternamente grati alle Olimpiadi, per quanti danni possano aver procurato su altri versanti.

    Il museo più straordinario della città, comunque, non è ancora pronto. È quello che, nella sede della vecchia caserma di Makriyanni, a sud dell’Acropoli, e in una nuova, futuristica ala ancora in corso di costruzione, attende i reperti che appunto dall’Acropoli provengono e attualmente sono affastellati in un modesto edificio sulla collina. Di una nuova sistemazione si sente da tempo il bisogno, perché anche lì sono stivati dei capolavori eccelsi (le Cariatidi dell’Eretteo, tanto per dire), in condizioni assai disagevoli per il pubblico.

    Ma l’ala principale del nuovo museo, una sala tutta cristalli che permetterà la visione diretta del colonnato del Partenone, è quella destinata ai marmi di Fidia: le sculture dei due frontoni e il fregio della cella interna. Che sarebbero, poi, quei celeberrimi “marmi Elgin” attualmente esposti al British Museum, che i greci da decenni aspirano a riavere e che gli inglesi, nonostante occasionali manifestazioni di buona volontà, sembrano non avere la minima intenzione di mollare.

    Questa storia dei marmi Elgin è davvero strana. Il mondo è pieno di opere d’arte greche e la maggior parte sono state allontanate dalla terra di origine con un atto di prepotenza. I diplomatici francesi che, previo versamento di una mazzetta alle autorità ottomane competenti, spedirono al Louvre la Venere di Milo e la Nike di Samotracia, gli archeologi tedeschi che trasferirono nella gliptoteca di Monaco le metope del tempio di Egina, non si comportarono in modo diverso da quello del loro vituperato predecessore inglese. E nessuno, che io sappia, chiede la restituzione della Venere di Milo, della Nike di Samotracia, dei marmi di Egina o, quanto a questo, del Laoconte dei musei vaticani. Su Fidia, invece, il contenzioso non si chiude mai, come abbiamo già avuto modo di ricordare.

    Non ho intenzione di difendere lord Elgin: per carità. Se qualche greco lo venisse a sapere, mi accompagnerebbero subito alla frontiera. A Londra sostengono che, allontanando quei capolavori da un luogo in cui, all’epoca, gli interessi per la classicità non erano altissimi, probabilmente li si è salvati, ma questa è solo una illazione. E l’argomento per cui nel grande piglia e dai della storia quel che è fatto è fatto e, in fondo, della cultura greca antica siamo eredi tutti noi occidentali, per cui poco importa dove sono materialmente custodite le sue reliquie, è uno di quelli che più di tutti ai greci dispiacciono. Loro quei marmi li vogliono, tanto è vero che stanno già costruendo il museo per metterceli.

    In realtà, il rapporto dei greci di oggi con il loro passato classico è più complicato di quanto non sembri. Il cristianesimo bizantino ha rappresentato una rottura radicale e qui non c’è stato un rinascimento capace di costruire un ponte sulle oscurità del Medio Evo. La riscoperta dell’identità antica, di un passato splendido e glorioso, conosciuto e ammirato in tutto il mondo, è stata, in Grecia, un processo parallelo a quello dell’uscita da un presente umiliante, della conquista della modernità. Ai tempi di lord Elgin, in definitiva, i greci non si consideravano neanche tali: si facevano chiamare romiì, “romani”, nel senso di legittimi eredi dell’Impero Romano d’Oriente, e il nome di “elleni”, una voce dotta, estranea alla coscienza popolare, se lo autoimposero dopo l’indipendenza e ce ne volle prima che l’accettassero tutti. Ancora oggi, una celebre canzone di Theodorakis, si chiede cos’è la “grecità” chiamandola romosìni.

    Per questo non c’è contraddizione tra l’ansia di adeguamento al resto del mondo, la volontà quasi patetica di essere ammessi una volta per tutte al villaggio globale della società dei consumi e dello spettacolo, che caratterizza tutta l’avventura di queste olimpiadi e la volontà un po’ caparbia di riavere indietro quei simboli di identità. Non è un problema di storia dell’arte. È una questione di principio e i principi vanno ribaditi. A costo di costruire un museo destinato a restare vuoto.

    26.08.’04

    Dorando 09