Dorando 07

Atene | Dorando 07


    Chiunque venga ad Atene è tenuto a compiere il suo pellegrinaggio all’Acropoli, per cui anch’io, ieri, mi sono accinto all’impresa. È stata una faticaccia, naturalmente, perché faceva piuttosto caldo e la salita è ripida, ma è inutile lamentarsi del clima, qui nella terra degli Dei, e poi, avendo goduto dei privilegi di una completa educazione classica, sapevo da subito che il suffisso acro- di Acropoli vuol sire “alto”, per cui, pur avendo la vaga impressione di affaticarmi un po’ di più della prima volta che sono salito lassù, una cinquantina di anni fa, non avevo di che lamentarmi.

    Mentre salivo, tuttavia, mi rendevo conto che c’era qualcosa che non andava. L’Acropoli era sempre quella, naturalmente, sormontata dal perfetto parallelepipedo del muro di Cimone, in cima al quale splendeva come sempre il biancore accecante dei templi. Avevo già avuto conferma, dal basso, di come i restauri del lato sud del Partenone si fossero finalmente conclusi, ridando a quella fila maestosa di colonne l’antico splendore, ed ero ansioso di vedere la nobile architettura di Irctino e Callicrate libera finalmente dall’intrico di tubi Innocenti in cui è stata avvolta negli ultimi decenni. Sì, man mano che mi avvicinavo potevo notare che qualche impalcatura metallica, ahimè, c’era ancora, specie nella zona dei Propilei, ma, insomma, era troppo sperare che la scadenza olimpica si fosse imposta anche ai tempi lunghi del restauro scientifico. E non era quello che mi dava fastidio. C’era qualcosa d’altro, qualcosa che non riuscivo a definire, una specie di rottura dell’armonia di quel complesso di edifici come l’avevo fatta propria in tanti anni di frequenza… Certo, qualcosa era sbagliato, ma cosa?

    Mi ci è voluto un po’, ve lo giuro, per rendermi conto che il tempio di Athena Nike, quel piccolo gioiello di ordine ionico che, su una piattaforma avanzata a destra dei Propilei accoglie il visitatore e addolcisce, con la sua grazia, l’austerità dorica dell’insieme, non c’era più. Era sparito. Un’altra impalcatura metallica, sulla piattaforma, sembrava delimitarne lo spazio, ma il tempio, in sé, bisognava immaginarselo. Era definitivamente assente.

    Ho fatto le debite indagini e ho scoperto che non c’era niente di misterioso. Come la maggior parte delle costruzioni su quel nobile colle, anche il capolavoro di Callicrate era in condizioni disperate e necessitava di un restauro rigoroso. Per cui l’hanno smontato e se lo sono portati via: blocchi e colonne saranno sottoposte alle cure appropriate, le lacune saranno colmate con nuovi inserti in marmo pentelico, le vecchie zanche di ferro, ormai arrugginite, saranno sostituite da nuovi modelli in titanio e un giorno o l’altro, in data da precisare, il tutto sarà rimontato come nuovo.

    Non basta. Un’analoga scoperta, solo un po’ meno scioccante, si può fare portandosi sul lato nord dello stesso Partenone, che dal basso non si vede e dove i lavori di restauro sono ancora in corso, in un intrico di gru e incastellature che sembra un cantiere navale. Se ci si prende la briga di contare le colonne ancora in sito, ci si renderà conto che sono meno di quante, per tradizione, siano sempre state, almeno da quel fatale giorno del 1687 in cui l’artiglieria del doge Emilio Morosini fece saltare in aria l’edificio, in cui i turchi, imprudentemente, avevano sistemato una polveriera. Anche lì, le hanno prese e portate via: le cureranno, riempiranno le lacune e rimonteranno il tutto.

    A me, vi dirò, questa storia di rimettere a nuovo rocchi di colonna e blocchi di marmo, per non dire delle lacune da colmare con nuovi manufatti, fa venire i brividi. Capisco, naturalmente, che i monumenti vadano restaurati, che ai danni del tempo – in certi casi – si possa e si debba porre rimedio, ma in quali casi esattamente? Se una colonna, per dire, non c’è più, sarà proprio giusto mettercene un’altra, sia pure prodotta nello stesso stile, con le identiche dimensioni e il medesimo materiale? Il problema, come sempre, è tutto di categorie: ci deve essere un momento in cui il concetto, diciamo così, di restauro sfuma in quello di falsificazione, ma chi è in grado di definirlo? E in base a quali criteri?

    Il bello è che i lavori in corso oggi sull’Acropoli non hanno il fine di riparare i danni prodotti dalla Storia, nelle persone dei cristiani che trasformarono il tempio di Athena in cattedrale della Madonna, dei turchi che ne fecero una moschea prima e una polveriera poi, dei veneziani che lo bombardarono, di lord Elgin che lo spogliò dei fregi di Fidia, dei bavaresi che lo bonificarono, alquanto sbrigativamente, delle sovrastrutture medioevali e così via. Quei danni lì sono, in un certo senso, acquisiti e bisogna rassegnarvicisi (anche se sui marmi Elgin i greci sperano ancora). No, i danni cui si cerca di porre rimedio sono quelli, state un po’ a sentire, dei restauri dei due secoli appena trascorsi, restauri condotti, dicono oggi, con tale disinvolta leggerezza da mettere a rischio la statica stessa degli edifici e da richiedere, per evitare un crollo definitivo, interventi radicali come quelli in corso.

    Ogni epoca, in realtà, ha i suoi criteri e li applica senza pietà. I restauratori ottocenteschi coltivavano l’ideale delle rovine romantiche, isolate nella loro purezza; quelli del ‘900 si ponevano il problema della “leggibilità” dei resti archeologici nel loro contesto storico. Quale logica muova oggi il team internazionale che opera sull’Acropoli, non saprei dirvi: spero solo, che a forza di “colmare lacune” e inserire elementi mancanti non si arrivi a una vera e propria ricostruzione moderna, nello spirito di una specie di Disneyland classica. Sarebbe un danno, quello, cui non potrebbe più rimediare nessuno.

24.08.’04
Dorando 07