Dorando 01

Atene | Dorando 01


    Basta passare un paio di giorni ad Atene, basta dare un’occhiata ai titoli dei giornali esposti nelle edicole, o seguire qualche trasmissione televisiva, o scambiare due o tre parole con gli amici di qui, per rendersi conto che i greci sui risultati e sullo svolgimento di questi giochi olimpici si sono giocati tutto il loro avvenire (o credono di esserselo giocato, il che poi è lo stesso). È ovvio che queste Olimpiadi, per loro, non sono un semplice evento sportivo, anche se tutti seguono con passione le sorti delle varie squadre in gara, compresa quella di softball femminile, una disciplina che finora non sembrava godere di una particolare popolarità, e se la storiaccia di Kendéris e della Thanu è stata vissuta come un’autentica tragedia nazionale, una brutta figura di cui non si sentiva proprio il bisogno e che si è deciso all’unanimità di considerare superata dal successo della cerimonia di inaugurazione, la “prima medaglia d’oro” per la Grecia, come titolava ieri un giornale, visto che sul piano strettamente sportivo fino ad allora di medaglie non se ne erano viste. I media greci sono ossessivamente consapevoli di come il loro paese sia, come ripetono tutti, “sotto gli occhi del mondo”, ma l’insistenza stessa con cui ribadiscono il concetto dimostra che il problema non può ridursi a una mera questione di immagine. Ci deve essere sotto, lo si capisce, anche qualcosa d’altro.

    In effetti, a essere in gioco è soprattutto la loro identità nazionale. Dal successo di questi giochi, dal funzionamento senza intoppi della grande macchina che hanno messo in piedi, i greci non si aspettano soltanto il riconoscimento a livello mondiale delle proprie capacità organizzative, l’archiviazione definitiva del luogo comune che li vuole come un popolo di simpatici casinisti, capaci di rimediare all’ultimo minuto con qualche sprazzo di genialità individuale alle molteplici manchevolezze di una società disordinata. Vogliono essere riconosciuti come gente seria, affidabile, in grado di portare a termine un’impresa complessa come questa con la stessa tranquilla prevedibilità che si riconosce, per dire, agli svizzeri, o ai tedeschi. O, naturalmente, agli americani.

    In Grecia, si sa, è stata inventata, or sono tre millenni, l’idea stessa di Europa, ma i greci degli ultimi due secoli sono stati sempre un po’ in equilibrio tra l’Europa e il Medio Oriente. Gli stranieri li hanno sempre ammirati, oltre che per le bellezze naturali del paese, per una certa loro originalità pittoresca, per la piacevole singolarità dei loro costumi e del loro modo di vivere. Al di là delle suggestioni dell’antichità classica, che, con gran rabbia dei dotti di Atene, gli studiosi inglesi, francesi e – soprattutto – tedeschi sono stati sempre convinti di interpretare loro al meglio, i greci sono stati spesso visti come i felici abitanti di un angolo di paradiso, capaci – certo – di godersi la vita nonostante la povertà cronica, dotati di un’istintiva capacità di piacere a tutti e di stringere legami di forte intensità emotiva, secondo il noto modello dello Zorba di Katzantzakis (e di Anthony Quinn), ma non certo capaci di organizzare, senza combinare un disastro, grandi eventi internazionali. Nella società contemporanea dello spettacolo sono sempre stati considerati più nel novero delle comparse che in quello dei registi e dei produttori.

    Ecco: dalle Olimpiadi i greci di oggi vogliono soprattutto il riconoscimento internazionale del fatto che questa immagine non ha più ragione di essere. Che nei loro confronti il modello del poveraccio ingegnoso e felice non ha più ragione di essere. Che il loro è ormai uno stato moderno, ad alto tasso di sviluppo, che attira immigrati come qualsiasi altro ricco paese europeo e che può permettersi di investire per il futuro invece di vivere in un eterno e precario presente. Di essere passati dal novero dei paesi cicala a quello delle formiche operose, come dimostra lo sfoggio di tecnologia esibito, oltre che negli impianti olimpici, nel ponte sul golfo di Corinto, la cui inaugurazione, contemporanea a quella dei giochi, è passata un po’ sotto silenzio, ma è stata un’altra occasione di esibire senza troppi pudori uno smisurato orgoglio nazionale.

    Insomma, il paese intero si aspetta dal felice svolgimento di questi giochi un diploma definitivo di modernità. O, meglio, di postmodernità, visto che tutto si gioca, più che sul piano dei fatti, che contano solo fino a un certo punto, perché naturalmente tutte quelle gare e quelle competizioni, alla lunga, non possono che annoiare, su quello delle immagini e delle capacità di suggestione mediatica. A tal fine, qui tutti sono disposti a sacrificare la propria tradizione, proprio nel momento in cui, sempre mediaticamente, ne riaffermano l’importanza. Lo fanno con un po’ di rimorso, forse, con un pizzico di rincrescimento, perché, in fondo, della loro originalità erano tutti orgogliosi, sulle pretese egemoniche dell’Europa industriale erano tutti pronti a sorridere un poco e quanto agli Stati Uniti, be’, non c’è paese in Europa in cui gli americani non siano più cordialmente antipatici a tutti e non solo perché tutti, ma proprio tutti, sono convinti, checché abbia dichiarato Kissinger, che dietro il colpo di stato dei colonnelli ci fosse la CIA. È una contraddizione, questa, di cui non tutti si rendono conto, ma che la maggioranza sembra disposta ad accettare. Certo, è poco ma sicuro che la Grecia, in futuro, non sarà più quella.

    16.08.’04

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