Al supermarket, la cassiera alza gli occhi dalla spesa che le ho sciorinato
davanti sul nastro mobile. Mi guarda fisso per un momento, poi scuote
la testa. “Che vita” dice, a voce abbastanza alta. Come che
vita, penso io e controllo rapidamente la merce che ho scaricato dal carrello.
Niente di speciale, noto con sollievo: è la solita roba. Quattro
lattine di birra, un cestino di acqua minerale, tre mezzi litri di latte
scremato a lunga conservazione, una reticella di arance a coltivazione
biologica, una bottiglia d chardonnay brut, una confezione di pesce fresco…
Niente che possa indurre nessuno a scuotere la testa e a esclamare
“Che vita”. Ma la mia interlocutrice, una signora di mezza età
dall’aria simpatica, anche se un po’ sciupacchiata, non ha finito. “Lavorare,
lavorare – aggiunge, in tono particolarmente disgustato – e poi…” Lascia
in sospeso la frase e scuote la testa con eloquenza. E poi comincia
a battere sul registratore il prezzo dei vari articoli.
A questo punto è chiaro che la cassiera non ce l’aveva
con me e non intendeva esprimere un giudizio sulla mia strategia di approvigionamento
alimentare o su qualsiasi altra questione che mi riguardasse. Rifletteva
su di sé e sul suo personale destino e le è capitato di dar voce a quello
che spero sia un momento passeggero di sconforto. Io non c’entro:
sono solo lì di passaggio. Avrebbe detto le stesse cose a chiunque,
in quel momento, fosse fermo in attesa davanti alla sua cassa.
Però, per un motivo o per l’altro, si è rivolta
a me. E se qualcuno ti si rivolge, in teoria, non foss’altro per
educazione, dovresti rispondergli. E cosa posso rispondere a questa
donna, prima che abbia finito di battere i prezzi e, porgendoti lo scontrino,
mi escluda dalla sua vita? “Lavorare, lavorare e poi…”
Già, e poi che? Personalmente non ho sufficienti competenze in teologia
per garantirle che, dopo una vita laboriosa e – indubbiamente – virtuosa,
ne sarà ricompensata con un posto di riguardo in Paradiso. E comunque
non ricorrerei in alcun caso all’argomento: so che a molti dà fastidio,
a prescindere da qualsiasi convinzione di tipo religioso. Anche chi
crede fermamente nell’aldilà, di solito, preferisce rimandarne il più
possibile l’esperienza. D’altro canto, la mia modesta esperienza
politica non mi permette proprio di assicurarle che, in un futuro più o
meno prossimo, la tanto attesa rivoluzione, o le tante attese riforme,
fa lo stesso, renderanno la vita dei lavoratori un paradiso in terra. O
soltanto un purgatorio un po’ meglio organizzato di adesso.
E allora cosa posso dirle? Potrei sorriderle
e bofonchiare qualcosa me “Eh sì, come dice bene…”, ma cosa se ne farebbe,
poveretta, di un commento del genere? E se ricorressi a un vieto
“Forza, sciura, stringa i denti e tiri avanti, che tanto non c’è nient’altro
da fare”, lei avrebbe tutti i diritti di mandarmi a quel paese. I
momenti di sconforto sono importanti, per chi li sta vivendo e chi ti viene
a dire che non ci si può far niente tende a sottovalutarli. O almeno
dà l’impressione di volerlo fare.
Per cui, in definitiva, non le ho detto assolutamente
niente. Ho fatto una specie di mezzo sorriso, vi ho aggiunto un cenno
di deprecazione con la testa, ho raccolto la mia spesa e me ne sono andato.
Ma me ne sono andato di pessimo umore, scontento di me stesso e
con la vaga sensazione di aver mancato a un dovere sociale. So già
che in futuro, nelle mie visite a quel supermercato, eviterò la cassa presidiata
da quella signora. Non perché abbia niente contro di lei, ma perché
d’ora in poi mi ricorderà quella che considero una defaillance.
Insomma, la ricerca, sia pure casuale, di un interlocutore, ha finito con
il ridurre il numero degli interlocutori possibili. Che vita.
22.11.’98