Una postilla. Non so se abbiate
notato che, mentre in Italia i vari leader si affaticavano sul testo della
mozione di cui si è detto prima, in America il Presidente Clinton, in un
discorso a Las Vegas, ha esposto per la prima volta con chiarezza, almeno
stando alla stampa, la sua dottrina in tema di intervento militare, definendone
finalità e limiti. Ha detto – citiamo dal “Corriere della sera”
di martedì 18 – che gli USA, l’ONU e le “nazioni civili” hanno il diritto
e il dovere di stroncare la pulizia etnica, ma non quello di intervenire
“nei conflitti locali senza atrocità di massa”. E di fronte all’ovvia
difficoltà di individuare oggi un conflitto, sia pure locale, che non comporti
atrocità di massa, ha specificato che si riferiva ai “conflitti di frontiera”.
La guerra tra l’Etiopia e l’Eritrea, ha esemplificato, è una guerra
“terribile”, che ha già fatto più di diecimila morti, ma si tratta “di
una guerra tribale di confine in cui nessuno intende lasciarsi coinvolgere”.
Gli Stati Uniti “non possono fermare ogni conflitto” e certe guerre,
d’altronde, “sono giuste”, perché “è difficile imporre di non servirsi
delle armi a chi vuole l’indipendenza” ed è “ingiusto interferire negli
affari interni di un Paese”. Ma non è questo il caso del Kossovo,
come non lo fu della Bosnia. “Combattiamo nel Kossovo” ha concluso
Clinton “perché non possiamo ignorare la pulizia etnica nel ventre
molle d’Europa. Se non la stroncheremo, altri leader come Milosevic
si alleeranno a forze criminali e terroriste per estendere la guerra ad
altri Paesi. È nel nostro interesse agire così, non solo in Europa,
ma dovunque noi, la NATO e l’ONU abbiano la forza di farlo. Ce lo
impone la nostra umanità.”
Per
Clinton, dunque, “umanità” e “interesse” coincidono senza residui.
Ed è a questa coincidenza, non si capisce perché, che il Presidente
si affida per distinguere i conflitti (come li chiama lui) in cui bisogna
intervenire e quelli da cui non è il caso di lasciarsi coinvolgere. Contro
“la pulizia etnica nel ventre molle di Europa” si può e si deve scendere
in campo; delle guerre “tribali e di confine” non è il caso di darsi
pensiero.
Farneticazioni
pure, naturalmente. Clinton si limita a dire che lui la guerra la
fa solo a chi vuole e cerca qualche parola con cui ammantare il suo arbitrio,
senza nemmeno riflettere sul fatto che anche il conflitto tra serbi e albanesi
è un fatto di confine (e lo sarà ancora di più se e quando i suoi generali
riusciranno a trascinare l’alleanza nell’attacco di terra), mentre in
quello tra etiopici ed eritrei non mancano certo le motivazioni etniche,
razziali e religiose. Non si preoccupa di spiegare quali sono gli
interessi che in un caso lo spingono ad agire e nell’altro no e non si
chiede certo perché la sua “umanità” sia così selettiva. Gli basta
dire che “agire” è nell’interesse suo e dei suoi e che è la “umanità”
che glielo impone.
Negli
scritti sulla guerra di Simone Weil, recentemente editi in Italia nella
bella traduzione di Donatella Zazzi, che ne firma anche la preziosa introduzione
(Sulla guerra – scritti 1933-1943, Pratiche editrice), si può leggere
un fondamentale saggio del 1937, Non ricominciamo la guerra di Troia. “Per
chi sa vedere” scrive la Weil “non c’è oggi sintomo più angosciante
del carattere irreale della maggior parte dei conflitti che sorgono. Hanno
ancora meno realtà del conflitto tra greci e troiani. Al centro della
guerra di Troia almeno c’era una donna, e, cosa ancor più importante,
una donna di perfetta bellezza. Per i nostri contemporanei, il ruolo
di Elena è svolto da parole adorne da maiuscole. Se potessimo afferrare,
nel tentativo di comprenderla, una di queste parole gonfie di sangue e
di lacrime, vedremmo che è priva di contenuto”. Gli uomini, per
quanto sangue versino o quante rovine accumulino “non potranno mai ottenere
effettivamente qualcosa che a queste parole corrisponda … perché non vogliono
dir niente. Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso
l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche … Beninteso,
non sempre queste parole sono in sé prive di senso; alcune ne avrebbero
uno, se ci si desse la pena di definirle in modo conveniente. Ma
una parola così definita perde la sua maiuscola, non può più servire da
bandiera, né tenere le sue posizioni di fronte alle vuote parole d’ordine
nemiche … Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente
vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un
lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle
vite umane (pag. 57).”
Di
fronte a tutte le parole vuote e irte di maiuscole che continuano a rimbombare
sulla bocca dei potenti, queste righe vecchie di oltre sessant’anni non
hanno perso un briciolo della loro attualità.
23.05.’99