Mi ero preparato, per la trasmissione
di questa mattina, un commento abbastanza sulfureo all’intervista in cui,
la domenica di Pasqua, il cardinale Ruini aveva sentito il bisogno di dichiarare
– in buona sostanza – che, essendo il nostro un paese cattolico, la Chiesa
ha tutti i diritti, se non l’espresso dovere, di raccomandare di non andare
a votare al referendum sulla procreazione assistita. Non che ci fosse,
in quel testo, nulla di particolarmente scandaloso, a parte la disinvoltura
con cui si applicava all’Italia un aggettivo che non sono così sicuro
le spetti: era anzi evidente che l’intervistato si sforzava di moderare
i toni e rassicurare, in qualche modo, la parte avversa, ma, certo, conteneva
delle affermazioni preoccupanti. Dall’affermazione, condivisibile,
in un certo senso, per cui “le riserve etiche della nostra società vengono
in gran parte dalla tradizione cristiana” il cardinale riusciva a trarre
delle conseguenze piuttosto spinte. Così sosteneva, un po’ spazientito,
che era ora di smetterla con “l’idea che la religione, e anche la filosofia,
debba essere qualcosa di privato, senza rilevanza pubblica” e non
si peritava di affermare che, visto che la Chiesa, comunque, “ha
sempre avuto nella storia un ruolo pubblico”, non si capiva perché non
dovesse continuare ad averlo in futuro e, nello specifico, perché dovesse
rinunciare a fornire un’indicazione di voto che “nelle questioni etiche
c’è sempre stata”. E anche se questo modo di ragionare è, in ogni
caso, l’unico che sia lecito attendersi da chi è in quella posizione,
spiaceva constatare come, anche il giorno di Pasqua, un uomo di Chiesa
di tanto prestigio continuasse a tenere lo sguardo così tenacemente ancorato
a questo nostro mondo terreno.
Oggi
il cardinale Ruini ha altro cui pensare e dalle polemiche di questo tipo,
per motivi di rispetto umano, sarà opportuno astenersi. Ma ammetterete
anche voi che la prospettiva che quel porporato sia uno dei protagonisti
del prossimo Conclave e possa, anzi, venirne innalzato a posizioni ancora
più alte di potere e responsabilità, è piuttosto inquietante. La
Chiesa, come ripetono oggi tutti i commentatori con desolante unanimità,
è molto cambiata durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, il
papa ha compiuto delle straordinare aperture nei confronti del mondo moderno,
ha rilanciato il dialogo tra le religioni, ha invocato la pace, ha chiesto
scusa agli Ebrei, ha riabilitato Galileo e ha deprecato il rogo di Giordano
Bruno, ma ha fatto anche beatificare Pio IX, recuperando implicitamente
le condanne del Sillabo e su certi argomenti né lui né i suoi collaboratori
sono mai stati disposti a transigere. Alla fiducia nel “braccio
secolare”, alla possibilità di imporre per legge ai fedeli (e anche a
chi fedele non è) i comportamenti che considerano corretti e doverosi
non hanno mai rinunciato. Ed è questa, in definitiva, la frontiera
su cui, alle soglie del terzo millennio e di un nuovo pontificato, siamo
ancora impegnati a lottare, in difesa della libertà di pensiero.
Non
si tratta, naturalmente, di contrapporre alla intransigenza ecclesiastica,
come talvolta si dice, una sorta di “integralismo laico”. L’integralismo
laico, checché ne dica un Rocco Buttiglione, non esiste. Integraliste
possono essere solo le religioni, che, disponendo di libri sacri cui riconoscono
lo status di verità rivelata e che pure contengono, a volte, dei passaggi
imbarazzanti (che so, la storia della creazione del mondo in sei
giorni nella Genesi o la descrizione nel Corano delle delizie carnali che
attendono il maschio devoto nell’aldilà) devono decidere se accettarne
integralmente la lettera, o sfumarla con una interpretazione storica, allegorica
o di altro tipo. È una scelta, dal loro punto di vista, difficile,
spesso drammatica, sulla quale avvengono grosse lacerazioni, perché vi
si gioca tutto lo spinoso problema del rapporto tra fede, tradizione e
cultura moderna.
Il laicismo è un’altra cosa. Non
avanza pretese di verità e non deve interpretare nessuna rivelazione. Consiste
semplicemente nell’atteggiamento di chi ha deciso – non importa per quale
motivo – di non intromettersi nelle opzioni in merito dei suoi simili,
anche quando non coincidono con le sue. Nasce dalla “tolleranza”
dell’altro da sé, come l’ha definita il travaglio intellettuale del secolo
dei lumi, e si esplicita nel rifiuto di imporre per via coattiva, amministrativa
o legale quelle pratiche la cui adozione dipende da un fatto di coscienza.
Può essere inteso, al limite, come una scelta di metodo e, come tale,
non è né integralista né non integralista, nel senso che non può spingersi
fino a un certo punto e fermarsi lì, non può applicarsi a certe scelte
e non ad altre, non può accontentarsi di concessioni parziali o conciliazioni
compromissorie, come quelle che può offrire un politico come il cardinale
Ruini. O si è laici o non lo si è.
Certo,
è una posizione difficile. Chi ne accetta i presupposti è tenuto
a rispettare e garantire – ovviamente – la libertà altrui, a costo di
dare spazio a individui e organizzazioni che, se appena potessero, della
sua libertà farebbero scempio, tanto è vero che alcuni di loro oggi si
danno un gran da fare per mantenere in vita una legge che, in nome appunto
dei loro principi, limita le scelte nostre. È una dissimmetria, questa,
della quale i clericali sono sempre stati acutamente consapevoli sin dai
tempi di Joseph de Maistre e sulla quale hanno sempre giocato alla grande.
E si capisce, perché si tratta, in effetti, di un punto di forza.
Ma visto che, in ultima analisi, si fonda su una contraddizione e
le contraddizioni, presto o tardi, si pagano, non escluderei, con tutto
il rispetto dovuto alla Chiesa in questi giorni di lutto, che chi vi ci
si affida possa andare incontro a qualche brutta sorpresa.
03.04.’05