Disponibilità interessate

La caccia | Trasmessa il: 02/12/2006




Avrete notato, spero, come siano tolleranti e cortesi i clericali italiani quando si viene a parlare di convivenze, rapporti personali e argomenti affini.  Saranno forse un po’ rigidi sui principi, ma per quanto riguarda le applicazioni concrete non potrebbero dimostrare una maggiore buona volontà, siano essi cardinali, prelati o politici di ambo gli schieramenti, come – per citarne una a caso – quella gentile signora che, grazie ai buoni uffici di Rutelli, è stata traghettata dalla presidenza  del Comitato Scienza e Vita alla candidatura nelle file dell’Ulivo e che Radio Popolare ha intervistato nel corso del “microfono aperto” di venerdì sera.  Sono, tutti costoro, di una disponibilità esemplare.  Le convivenze di fatto?  Be’, sono rapporti che esistono, nessuno lo nega e nessuno intende negare ai loro protagonisti un certo numero di diritti.  Gli esempi vengono naturali.  Poter visitare il compagno in ospedale e venire informati sulla sua situazione sanitaria?  E chi mai si opporrebbe?  Conservare la casa?  Ma certo.  La reversibilità della pensione?  Niente di più ovvio.  Una qualche forma di comunanza dei beni?  Solo uno stolto la escluderebbe.  E così via: l’unica cosa che ai devoti ratzingheriani sta a cuore davvero, l’unico principio su cui non possono ad alcun costo transigere, a quel che sembra, è la difesa della centralità sociale e dell’unicità giuridica della famiglia, quella unione tra uomo e donna fondata, come si dice, sul matrimonio.  Per cui, se di nozze gay non è nemmeno il caso di parlare, per la contraddizione che non lo consente, è ovvio che anche sui PACS sarà meglio soprassedere, visto che potrebbero essere intesi come  una forma surrettizia di coniugio, e lo stesso vale, naturalmente, per le “unioni civili” e simili astrusità.  I nemici della famiglia, come ben sa la Chiesa, sono scaltri e insidiosi e non desistono dal proporre una serie di apparenti formule di compromesso dietro le quali si cela l’indomita volontà di scalzare dalle radici l’istituto familiare, quella “società naturale” che, in quanto tale, viene riconosciuta persino dalla nostra Costituzione.

       Ci sarebbe da discutere a lungo, naturalmente, sulla naturalità di una istituzione che in natura, di solito, non esiste, visto che persino i nostri fratelli primati regolano le proprie convivenze secondo tutt’altre prassi e modalità, anche se lo schema prevalente tra i gorilla, quello che prevede un maschio anziano dominatore, una quantità di giovanotti frustrati e ansiosi di rivalsa e le femmine nel ruolo di premio della contesa non è del tutto estraneo ai modelli antropologici correnti.  Ma un dibattito di questo tipo non ci porterebbe da nessuna parte.   Meglio limitarsi a osservare, forse, che quell’atteggiamento di fermezza sui principi e disponibilità sui casi concreti, per quanto possa apparire vicino agli ideali della carità cristiana, è viziato, oltre che da una sottile, sottilissima forma di ipocrisia, da una assai più patente contraddittorietà.   Non so a voi, ma a me sembra abbastanza chiaro che perché ai singoli membri di una coppia di fatto possa essere riconosciuto un diritto qualsiasi, la loro convivenza debba essere registrata da qualche parte e una convivenza registrata, non importa se all’anagrafe, dal notaio, in Comune, in Prefettura o all’Automobile Club, assomiglia a tal punto a un matrimonio che mai e poi mai un autentico seguace del cardinale Ruini potrebbe accettarla.

       Con il che si ritorna difilato al punto di partenza: chi ha dei diritti se li tiene ben stretti e chi ne è privo è invitato, nel caso migliore, a grattarsi.  La contraddizione non imbarazza i cattolici del centrosinistra più di quanto infastidisca i laici del centrodestra, visto che sull’argomento si possono sempre formare le più solide maggioranze traversali.  Il che significa, naturalmente, credere che basti essere in maggioranza per imporre a tutti le proprie scelte di valore, che è una scelta di eticità dello stato lontana le mille miglia da quel liberalismo di cui tutti amano oggi riempirsi la bocca, ma il problema dei nostri politici, si sa, è soprattutto quello di riempirsi la bocca con delle affermazioni abbastanza vaghe da non poter essere smentite dai fatti.

Permettetemi, infine, una notazione erudita.  Il conduttore della trasmissione che citavo poco fa esordiva citando il noto aforisma di Enrico IV di Borbone, quello per cui Parigi valeva bene una messa, e si chiedeva se quel prezzo si possa e si voglia oggi pagare pur di porre piede a Palazzo Chigi.  Era, beninteso, una domanda retorica, cui nessuno risponderà mai, ma guardateli bene in faccia, i nostri undici leader, compresi quelli che ieri a sottoscrivere il programma dell’Unione non sono andati, e capirete benissimo come la pensino.  Il guaio è che la controparte ecclesiastica, in questi casi, è meno tollerante di quanto appaia: incassa di buon grado le abiure e le concessioni relative, ma anche la sua disponibilità è interessata e non comporta la rinuncia ad armare la mano dei vari François Ravaillac, per citare il “fanatico”, come lo si definisce di solito, che nel 1610 pose fine alla carriera terrena dell’Enrico in questione.  I tempi saranno cambiati, ma se fossi in loro io ci rifletterei un pochino.


12.02.’06