Avrete notato, spero, come siano tolleranti e cortesi i clericali italiani
quando si viene a parlare di convivenze, rapporti personali e argomenti
affini. Saranno forse un po’ rigidi sui principi, ma per quanto
riguarda le applicazioni concrete non potrebbero dimostrare una maggiore
buona volontà, siano essi cardinali, prelati o politici di ambo gli schieramenti,
come – per citarne una a caso – quella gentile signora che, grazie ai
buoni uffici di Rutelli, è stata traghettata dalla presidenza del
Comitato Scienza e Vita alla candidatura nelle file dell’Ulivo e che Radio
Popolare ha intervistato nel corso del “microfono aperto” di venerdì
sera. Sono, tutti costoro, di una disponibilità esemplare. Le
convivenze di fatto? Be’, sono rapporti che esistono, nessuno lo
nega e nessuno intende negare ai loro protagonisti un certo numero di diritti.
Gli esempi vengono naturali. Poter visitare il compagno in
ospedale e venire informati sulla sua situazione sanitaria? E chi
mai si opporrebbe? Conservare la casa? Ma certo. La reversibilità
della pensione? Niente di più ovvio. Una qualche forma di comunanza
dei beni? Solo uno stolto la escluderebbe. E così via: l’unica
cosa che ai devoti ratzingheriani sta a cuore davvero, l’unico principio
su cui non possono ad alcun costo transigere, a quel che sembra, è la difesa
della centralità sociale e dell’unicità giuridica della famiglia, quella
unione tra uomo e donna fondata, come si dice, sul matrimonio. Per
cui, se di nozze gay non è nemmeno il caso di parlare, per la contraddizione
che non lo consente, è ovvio che anche sui PACS sarà meglio soprassedere,
visto che potrebbero essere intesi come una forma surrettizia di
coniugio, e lo stesso vale, naturalmente, per le “unioni civili” e simili
astrusità. I nemici della famiglia, come ben sa la Chiesa, sono scaltri
e insidiosi e non desistono dal proporre una serie di apparenti formule
di compromesso dietro le quali si cela l’indomita volontà di scalzare
dalle radici l’istituto familiare, quella “società naturale” che, in
quanto tale, viene riconosciuta persino dalla nostra Costituzione.
Ci sarebbe da discutere a lungo, naturalmente,
sulla naturalità di una istituzione che in natura, di solito, non esiste,
visto che persino i nostri fratelli primati regolano le proprie convivenze
secondo tutt’altre prassi e modalità, anche se lo schema prevalente tra
i gorilla, quello che prevede un maschio anziano dominatore, una quantità
di giovanotti frustrati e ansiosi di rivalsa e le femmine nel ruolo di
premio della contesa non è del tutto estraneo ai modelli antropologici
correnti. Ma un dibattito di questo tipo non ci porterebbe da nessuna
parte. Meglio limitarsi a osservare, forse, che quell’atteggiamento
di fermezza sui principi e disponibilità sui casi concreti, per quanto
possa apparire vicino agli ideali della carità cristiana, è viziato, oltre
che da una sottile, sottilissima forma di ipocrisia, da una assai più patente
contraddittorietà. Non so a voi, ma a me sembra abbastanza chiaro
che perché ai singoli membri di una coppia di fatto possa essere riconosciuto
un diritto qualsiasi, la loro convivenza debba essere registrata da qualche
parte e una convivenza registrata, non importa se all’anagrafe, dal notaio,
in Comune, in Prefettura o all’Automobile Club, assomiglia a tal punto
a un matrimonio che mai e poi mai un autentico seguace del cardinale Ruini
potrebbe accettarla.
Con il che si ritorna difilato al punto di
partenza: chi ha dei diritti se li tiene ben stretti e chi ne è privo è
invitato, nel caso migliore, a grattarsi. La contraddizione non imbarazza
i cattolici del centrosinistra più di quanto infastidisca i laici del centrodestra,
visto che sull’argomento si possono sempre formare le più solide maggioranze
traversali. Il che significa, naturalmente, credere che basti essere
in maggioranza per imporre a tutti le proprie scelte di valore, che è una
scelta di eticità dello stato lontana le mille miglia da quel liberalismo
di cui tutti amano oggi riempirsi la bocca, ma il problema dei nostri politici,
si sa, è soprattutto quello di riempirsi la bocca con delle affermazioni
abbastanza vaghe da non poter essere smentite dai fatti.
Permettetemi, infine, una notazione erudita. Il conduttore della
trasmissione che citavo poco fa esordiva citando il noto aforisma di Enrico
IV di Borbone, quello per cui Parigi valeva bene una messa, e si chiedeva
se quel prezzo si possa e si voglia oggi pagare pur di porre piede a Palazzo
Chigi. Era, beninteso, una domanda retorica, cui nessuno risponderà
mai, ma guardateli bene in faccia, i nostri undici leader, compresi quelli
che ieri a sottoscrivere il programma dell’Unione non sono andati, e capirete
benissimo come la pensino. Il guaio è che la controparte ecclesiastica,
in questi casi, è meno tollerante di quanto appaia: incassa di buon grado
le abiure e le concessioni relative, ma anche la sua disponibilità è interessata
e non comporta la rinuncia ad armare la mano dei vari François Ravaillac,
per citare il “fanatico”, come lo si definisce di solito, che nel 1610
pose fine alla carriera terrena dell’Enrico in questione. I tempi
saranno cambiati, ma se fossi in loro io ci rifletterei un pochino.
12.02.’06