Dinamica delle profezie

La caccia | Trasmessa il: 05/21/2000



Tra tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno sentito il bisogno di dire la loro sull’affascinante tema del terzo mistero di Fatima, dando origine – senza rendersene conto – a uno dei più straordinari corto circuiti mediatici di questi tempi, il solo Marco d’Eramo, sul “manifesto” di mercoledì 17, ha avuto il coraggio di far notare due particolari che pure non possono non essersi impressi, con palmare evidenza, all’attenzione di chiunque abbia riflettuto con un minimo di buon senso sulle “rivelazioni” di sabato l’altro.  Ha scritto, in sostanza, che ci voleva, da parte di papa Wojtyla, una ben alta considerazione di sé per poter affermare che il punto culminante di un testo dedicato, in sostanza, ai travagli dell’umanità intera, riguardasse un evento della sua propria vicenda terrena, come se un singolo attentato (fallito, per fortuna) alla sua augusta persona fosse un segno di crisi più grave dello scoppio della seconda guerra mondiale.  E se è anche vero che il papa, presumibilmente, non pensava a sé come individuo privato, ma alla sua funzione di vicario e di simbolo, è certo comunque che per considerarsi, a qualsiasi titolo personale o delegato, così al centro dell’universo è necessario un ego piuttosto ipertrofico.
        L’altro particolare è ancora più ovvio.  Di una profezia rivelata dopo che l’evento cui si riferisce ha avuto regolarmente luogo, nessuno, in sostanza, sentiva o sente il bisogno.  Il bello delle profezie sta appunto nel fatto che ci rivelano, o pretendono di rivelarci, il futuro: quel futuro che ognuno di noi dev’essere in grado in ogni momento di prevedere, perché ne va della sua personale sopravvivenza, e che, pure, tanto spesso ci elude e ci inganna con fallaci speranze e proiezioni inesatte.  Di solito, lo sappiamo, una previsione azzeccata rivela in chi la pronuncia soltanto la capacità di estrapolare correttamente qualcosa a partire dai dati disponibili, ma non è sempre così facile.  Ci sono (alcuni, lameno, pretendono che ci siano) le previsioni miracolose, le profezie, appunto, che si sottraggono a questo modello, che introducono un quid logicamente imprevedibile: il loro successo, naturalmente, dovrebbe venire considerato la prova di un intervento soprannaturale ed essere quindi opportunamente utilizzato per convincere eventuali increduli: è a questo, in sostanza che servono i miracoli.  Ma il gioco deve esser condotto lealmente: rivelare nel maggio 2000 che una profezia del maggio 1917 prevedeva un certo evento che ha avuto luogo nel maggio 1981 non prova davvero un granché: la dichiarazione richiede, per essere accettata, molta buona volontà, nonché  tutta una serie di controlli, diciamo così, filologici sul suo testo, (come è stato definito e conservato, chi vi ha potuto accedere, eccetera), con il risultato che  il suo potere di convincimento sugli scettici resta comunque piuttosto basso.  Da un punto di vista strettamente filologico, si sa, le profezie post eventum sono impiegate dagli studiosi per datare i testi che le contengono, per stabilire, come si dice tecnicamente, un terminus post: se Dante, per fare un esempio a caso, “prevede”, nel canto XXVIII dell’Inferno (vv. 55-60), che fra Dolcino dovrà arrendersi per mancanza di vettovaglie, per cui sarà catturato e arso vivo, ciò significa che quel particolare passo del sommo poema è stato scritto dopo il 1307, quando cadde, appunto per quei motivi, la fortezza di Monte Zebello.  Quando Dante azzarda una profezia vera e propria, in genere la canna clamorosamente anche lui, come gli succede quando prevede, nel primo celebre verso della Commedia, di vivere fino a settanta anni, mancando il bersaglio di ben quattordici punti.
        Con questo naturalmente non voglio insinuare, Dio scampi, che la terza profezia di Fatima sia stata elaborata da chissachì dopo il 13 maggio 1981.  Figuriamoci.  Ma è certo che le profezie hanno, per così dire, una loro dinamica, nel senso che anch’esse, col tempo, assumono significati diversi per chi le pronuncia e per chi, a vario titolo, le recepisce.  In fondo sono dei testi e i testi, si sa, oltre al valore che gli dà il loro autore possono assumere benissimo quello che intendono attribuirgli i lettori.  Nel caso della rivelazione di Fatima, poi, il processo di elaborazione di quel testo, la cui forma definitiva risale, a quanto è dato sapere, al 1941, quando fu comunicato a papa Pio XII, è stato particolarmente lungo e oscuro.  Su quella visione, una volta morti due pastorelli su tre, e solidamente rinchiusa la terza in convento, avranno lavorato chissà quali e quanti esperti ecclesiastici ed è abbastanza probabile, se nessuno si scandalizza, che la versione finale rifletta interessi e paure dell’alto clero portoghese degli anni ’20 e ’30.  Il che spiega, naturalmente, l’enfasi sulla guerra e sul pericolo comunista e l’assoluto silenzio sulla Shoah: quei bravi padri avevano, come tutti, paura di una guerra in cui l’Occidente avrebbe dovuto fatalmente allearsi con l’Unione Sovietica, e avevano altresì abbastanza paura delle persecuzioni da cui i vescovi biancovestiti non sarebbero stati certamente immuni, come insegnavano gli eventi spagnoli contemporanei.  Quanto al fatto che una spietata dittatura borghese avrebbe perseguito il progetto di distruggere l’intero popolo ebraico, be’, è molto probabile che a quei bravi pastori non avrebbe potuto importargliene di meno.
        Ci resta una curiosità destinata, probabilmente, a non essere soddisfatta.  Chissà quale visione avranno mai avuto davvero i tre pastorelli, prima di finire nelle mani dei loro interpreti.  Io, se posso azzardare una supposizione gratuita, ho il sospetto che c’entrasse molto l’immagine dell’inferno, come lo si descrive nella prima parte della rivelazione: è un’immagine che ben corrisponde all’insegnamento catechistico di allora, come poteva essere recepito da un’anima sensibile.  Ma appunto questo è il “mistero” di cui oggi si parla il meno possibile: tutti i pii commentatori della rivelazione papale hanno preferito lasciarlo perdere, perché quello di inferno oggi è un concetto imbarazzante, assolutamente fuori di moda, e il teologo che riuscisse a trovare il modo di toglierlo di mezzo senza far troppi danni si guadagnerebbe la gratitudine eterna di tutta la chiesa.   La teologia, come tutte le scienze, esatte o inesatte, è sempre specchio dei tempi in cui la si elabora ed è soggetta a un continuo processo di aggiustamento, che ne modifica e forse ne tradisce gli assunti, ma al tempo stesso ci permette di poterne fruire anche se i tempi e i valori sono cambiati.  Forse nemmeno la povera suor Lucia, tutta intenta a fabbricare rosari nel suo convento di Coimbra, ricorda più esattamente com’è stata quella sua misteriosa esperienza di ottantatré anni fa.   Anche gli uomini e le donne ricreano e reinterpretano continuamente se stessi: la realtà del nostro passato, per tutti noi, è altrettanto insondabile di quella del nostro futuro.  È questo un segreto assai più profondo di quello di Fatima.

21.05.’00