Tra tutti coloro che, in un modo o nell’altro,
hanno sentito il bisogno di dire la loro sull’affascinante tema del terzo
mistero di Fatima, dando origine – senza rendersene conto – a uno dei
più straordinari corto circuiti mediatici di questi tempi, il solo Marco
d’Eramo, sul “manifesto” di mercoledì 17, ha avuto il coraggio di far
notare due particolari che pure non possono non essersi impressi, con palmare
evidenza, all’attenzione di chiunque abbia riflettuto con un minimo di
buon senso sulle “rivelazioni” di sabato l’altro. Ha scritto,
in sostanza, che ci voleva, da parte di papa Wojtyla, una ben alta considerazione
di sé per poter affermare che il punto culminante di un testo dedicato,
in sostanza, ai travagli dell’umanità intera, riguardasse un evento della
sua propria vicenda terrena, come se un singolo attentato (fallito, per
fortuna) alla sua augusta persona fosse un segno di crisi più grave dello
scoppio della seconda guerra mondiale. E se è anche vero che il papa,
presumibilmente, non pensava a sé come individuo privato, ma alla sua funzione
di vicario e di simbolo, è certo comunque che per considerarsi, a qualsiasi
titolo personale o delegato, così al centro dell’universo è necessario
un ego piuttosto ipertrofico.
L’altro
particolare è ancora più ovvio. Di una profezia rivelata dopo che
l’evento cui si riferisce ha avuto regolarmente luogo, nessuno, in sostanza,
sentiva o sente il bisogno. Il bello delle profezie sta appunto nel
fatto che ci rivelano, o pretendono di rivelarci, il futuro: quel futuro
che ognuno di noi dev’essere in grado in ogni momento di prevedere, perché
ne va della sua personale sopravvivenza, e che, pure, tanto spesso ci elude
e ci inganna con fallaci speranze e proiezioni inesatte. Di solito,
lo sappiamo, una previsione azzeccata rivela in chi la pronuncia soltanto
la capacità di estrapolare correttamente qualcosa a partire dai dati disponibili,
ma non è sempre così facile. Ci sono (alcuni, lameno, pretendono
che ci siano) le previsioni miracolose, le profezie, appunto, che si sottraggono
a questo modello, che introducono un quid logicamente imprevedibile: il
loro successo, naturalmente, dovrebbe venire considerato la prova di un
intervento soprannaturale ed essere quindi opportunamente utilizzato per
convincere eventuali increduli: è a questo, in sostanza che servono i miracoli.
Ma il gioco deve esser condotto lealmente: rivelare nel maggio 2000
che una profezia del maggio 1917 prevedeva un certo evento che ha avuto
luogo nel maggio 1981 non prova davvero un granché: la dichiarazione richiede,
per essere accettata, molta buona volontà, nonché tutta una serie
di controlli, diciamo così, filologici sul suo testo, (come è stato definito
e conservato, chi vi ha potuto accedere, eccetera), con il risultato che
il suo potere di convincimento sugli scettici resta comunque piuttosto
basso. Da un punto di vista strettamente filologico, si sa, le profezie
post eventum sono impiegate dagli studiosi per datare i testi che le contengono,
per stabilire, come si dice tecnicamente, un terminus post: se Dante, per
fare un esempio a caso, “prevede”, nel canto XXVIII dell’Inferno (vv.
55-60), che fra Dolcino dovrà arrendersi per mancanza di vettovaglie, per
cui sarà catturato e arso vivo, ciò significa che quel particolare passo
del sommo poema è stato scritto dopo il 1307, quando cadde, appunto per
quei motivi, la fortezza di Monte Zebello. Quando Dante azzarda una
profezia vera e propria, in genere la canna clamorosamente anche lui, come
gli succede quando prevede, nel primo celebre verso della Commedia, di
vivere fino a settanta anni, mancando il bersaglio di ben quattordici punti.
Con
questo naturalmente non voglio insinuare, Dio scampi, che la terza profezia
di Fatima sia stata elaborata da chissachì dopo il 13 maggio 1981. Figuriamoci.
Ma è certo che le profezie hanno, per così dire, una loro dinamica,
nel senso che anch’esse, col tempo, assumono significati diversi per chi
le pronuncia e per chi, a vario titolo, le recepisce. In fondo sono
dei testi e i testi, si sa, oltre al valore che gli dà il loro autore possono
assumere benissimo quello che intendono attribuirgli i lettori. Nel
caso della rivelazione di Fatima, poi, il processo di elaborazione di quel
testo, la cui forma definitiva risale, a quanto è dato sapere, al 1941,
quando fu comunicato a papa Pio XII, è stato particolarmente lungo e oscuro.
Su quella visione, una volta morti due pastorelli su tre, e solidamente
rinchiusa la terza in convento, avranno lavorato chissà quali e quanti
esperti ecclesiastici ed è abbastanza probabile, se nessuno si scandalizza,
che la versione finale rifletta interessi e paure dell’alto clero portoghese
degli anni ’20 e ’30. Il che spiega, naturalmente, l’enfasi sulla
guerra e sul pericolo comunista e l’assoluto silenzio sulla Shoah: quei
bravi padri avevano, come tutti, paura di una guerra in cui l’Occidente
avrebbe dovuto fatalmente allearsi con l’Unione Sovietica, e avevano altresì
abbastanza paura delle persecuzioni da cui i vescovi biancovestiti non
sarebbero stati certamente immuni, come insegnavano gli eventi spagnoli
contemporanei. Quanto al fatto che una spietata dittatura borghese
avrebbe perseguito il progetto di distruggere l’intero popolo ebraico,
be’, è molto probabile che a quei bravi pastori non avrebbe potuto importargliene
di meno.
Ci
resta una curiosità destinata, probabilmente, a non essere soddisfatta.
Chissà quale visione avranno mai avuto davvero i tre pastorelli,
prima di finire nelle mani dei loro interpreti. Io, se posso azzardare
una supposizione gratuita, ho il sospetto che c’entrasse molto l’immagine
dell’inferno, come lo si descrive nella prima parte della rivelazione:
è un’immagine che ben corrisponde all’insegnamento catechistico di allora,
come poteva essere recepito da un’anima sensibile. Ma appunto questo
è il “mistero” di cui oggi si parla il meno possibile: tutti i pii commentatori
della rivelazione papale hanno preferito lasciarlo perdere, perché quello
di inferno oggi è un concetto imbarazzante, assolutamente fuori di moda,
e il teologo che riuscisse a trovare il modo di toglierlo di mezzo senza
far troppi danni si guadagnerebbe la gratitudine eterna di tutta la chiesa.
La teologia, come tutte le scienze, esatte o inesatte, è sempre
specchio dei tempi in cui la si elabora ed è soggetta a un continuo processo
di aggiustamento, che ne modifica e forse ne tradisce gli assunti, ma al
tempo stesso ci permette di poterne fruire anche se i tempi e i valori
sono cambiati. Forse nemmeno la povera suor Lucia, tutta intenta
a fabbricare rosari nel suo convento di Coimbra, ricorda più esattamente
com’è stata quella sua misteriosa esperienza di ottantatré anni fa.
Anche gli uomini e le donne ricreano e reinterpretano continuamente se
stessi: la realtà del nostro passato, per tutti noi, è altrettanto insondabile
di quella del nostro futuro. È questo un segreto assai più profondo
di quello di Fatima.
21.05.’00