È straordinario quanto interesse provi
per i vocabolari chi scrive di fatti linguistici senza essere esattamente
del mestiere. Sui giornalisti, per esempio, quegli oggetti librari
dall’incerto status, sospesi come sono tra la funzione normativa e quella
di semplice repertorio, esercitano un fascino incontrollato. Ogni
volta che esce una nuova edizione dello Zingarelli o del Devoto Oli (e
succede spesso, trattandosi di prodotti di intenso consumo scolastico),
si può contare almeno su un paio di servizi dedicati a “come è cambiata
la lingua italiana”. E a cosa, di fronte al cambiamento, debba fare
o non fare chiunque voglia parlare correttamente.
Così,
“La Repubblica” di martedì scorso spende una pagina intera, illustrata
a colori, sul “dizionario delle parole morte”. Ci informa, sin
dall’occhiello, che “ogni anno almeno seicento neologismi entrano a far
parte della lingua italiana”, ma che “ci sono anche decine di termini
che vengono dichiarati estinti.” Ed è su questi che soprattutto
si concentra l’attenzione dell’articolista. Così, quest’anno,
dai dizionari sono spariti, oltre ad alcuni mostri semantici quali l’eurolira
e la turismatica, una serie di termini indicanti professioni ormai desuete,
tipo rammagliatrici (“donne che riparavano le calze di nailon”), abbadatore
(“operaio nella solfatara”), lanavendolo (“chi vendeva in strada la
lana”), vendispago (“canapaio”) e fatturante, che stava,
a quanto pare, per cottimista, anche se in giro di gente costretta da un
diffuso inganno normativo a emettere fattura pur dandoci dentro come se
lavorasse a cottimo ce n’è, credo, oggi più di prima. E se sembra
difficile che qualcuno si dispiaccia per la sparizione della menomanza
nel senso di “diminuzione” e del valicatolo, che era, ci crediate o no,
una “passerella su un torrente”, per non dire delle cheche e dei lacchezzi,
che indicavano – sembra – i “capricci” e la “moine” in bocca toscana,
permettetemi di esprimere tutto il mio sincero rimpianto per le subrettine,
che erano oggetto di diffuse cupidigie teatrali e non solo teatrali ai
tempi della mia giovinezza e oggi hanno dovuto, ahimè, lasciare il campo
al pallido surrogato televisivo delle veline.
L’elenco,
così come ve l’ho recitato, può dare una certa impressione di casualità,
ma non è esattamente così. Alla redazione dello Zingarelli, “15mila
interventi su 130mila parole”, lavorano, si scopre, ben quattrocento collaboratori,
coordinati dal professor Mario Cannella, e non c’è termine desueto che
possa scampare alle loro premure. Pensate che laggiù tengono persino
una cartellina con sopra scritto “Braccio della morte” e “per qualche
anno le parole passibili di esecuzione vengono tenute lì, sotto sorveglianza.
Poi una volta l’anno si riunisce il gran consiglio e alcune vengono
graziate, altre zac.” Testuale, ma orribile.
Personalmente,
spero che tutto ciò non sia vero. Che se lo sia inventato l’articolista,
di propria incauta iniziativa o perché traviata dal professor Cannella.
Perché, a parte il fatto che con entità come i bracci della morte
non mi par bello scherzare, è chiaro a tutti che non c’è proprio motivo
di togliere dai dizionari i termini usciti dall’uso. Quella di registrarli,
anzi, dovrebbe essere una delle funzioni precipue di quelle opere e dei
loro autori. Cosa dovrebbe fare un poveraccio che, leggendo un
testo di qualche anno fa in cui si raccontino, per esempio, i casi di una
subrettina tutta cheche e lacchezzi che, decisa a lasciare quell’ambiguo
mestiere per amore di un onesto vendelana, decide, a scapito della menomanza
di salario, di rifarsi una vita come rammagliatrice, cosa potrebbe fare
costui, di fronte a eventuali difficoltà semantiche, se non consultare
un buon vocabolario? Quando non si conosce il significato di una
parola, perché dotta, insolita, rara o – appunto – desueta, di solito
si fa così. Ma chi ricorresse , per avventura, all’ultima edizione
aggiornata e riveduta, pur potendovi trovare ogni possibile inutile informazione
sulle veline (inutile, perché cosa siano le veline oggi lo sanno tutti)
non si chiarirebbe nessuno dei suoi pur legittimi dubbi.
In
realtà, l’unica motivazione possibile di questa specie di abiura degli
obblighi del buon lessicografo, la si trova tra le righe, quando si accenna,
come unica alternativa alla pratica di cassare questa o quella parola,
alla possibilità di “rimpicciolire i caratteri e risparmiare le righe”.
Capirete, con settecento neologismi all’anno il vocabolario, inteso
come repertorio di parole, cresce più di quanto possa permettersi il vocabolario
inteso come volume in vendita dal cartolaio. E non potendosi rimpicciolire
i caratteri all’infinito, ché anzi l’analfabetismo crescente raccomanda
l’adozione di un corpo ben leggibile, non c’è altro mezzo che quello
di limare i contenuti, se non si vuole proporre tomi sempre più massicci
e costosi e finire – quindi – fuori mercato. Che è un buon esempio,
lo ammetterete, di come la logica del commercio possa rendere potenzialmente
inutili gli stessi articoli che propone all’acquisto.
Il
risultato, naturalmente, è che al vocabolario, monco sul piano della informazione,
finisce col restare solo la funzione prescrittiva, quella di indicare le
parole di cui ci si può, anzi ci si deve servire. Niente termini
desueti, dunque (tranne, forse, quelli testimoniati dai “buoni autori”),
e dei neologismi soltanto quelli che riescono a filtrare attraverso le
barriere erette dai quattrocento collaboratori del professor Cannella,
che saranno, non ne dubito, bravissime persone, ma non si vede perché
dovrebbero essere gravati da un compito tanto oneroso. È la logica
della Crusca, d’altronde, la logica di tutte le accademie e di tutte le
istituzioni docenti, da sempre impegnate nello sforzo di imbrigliare la
natura incoercibilmente anarchica della lingua, la sua capacità di creare
quante parole vuole, di cassarle dall’uso per i motivi più futili e di
ripescarle senza problemi quando così piaccia ai soggetti che parlano e
scrivono. Il problema potrà sembrarvi di poco conto, ma quella di
ricorrere, nell’espressione delle idee, a tutte le cheche e i lacchezzi
che vogliamo è una componente non piccola della nostra libertà. Quella
libertà che l’autoritarismo delle istituzioni e le leggi del mercato ogni
giorno si sforzano congiuntamente di sopprimere.
31.10.’04