Di tutti

La caccia | Trasmessa il: 05/14/2006





Suppongo che non ne possiate più neanche voi, a cinque giorni dalla elezione presidenziale, di sentir esprimere dalla gente più strana l’auspicio, la speranza o la certezza –  dipende –  che il senatore Napolitano si dimostri per i sette anni a venire “il presidente di tutti gli italiani”.  È un’espressione, ne converrete, di cui si è fatto un abuso intollerabile, tanto più fastidioso perché, a rigore di termini, quelle parole rappresentano non solo una scortesia (visto che insinuano inutilmente il dubbio che le cose possano andare in altro modo), ma anche un pleonasmo.   Che l’ottimo Giorgio sia, fin da ora, il presidente di tutti noi lo garantisce il fatto stesso che all’alta carica sia stato eletto secondo le norme che la Costituzione detta e prevede, il che gli dà automaticamente il diritto (e il dovere) di presiederci, con i modi e nei limiti che in quel testo sono definiti.  Quella espressione,  da un punto di vista strettamente linguistico, è un semplice genitivo soggettivo, vuol dire che lui presiede e tutti gli altri sono presieduti, e chiunque si provasse a metterlo in dubbio si porrebbe automaticamente al di fuori, oltre che dalla comunità nazionale, dalle convenzioni sintattiche correnti, con grave pregiudizio delle sue possibilità di farsi intendere.

      Ciò premesso, spero converrete anche sul fatto che l’espressione non è reversibile.  Come a dire che non è vero che tutti ci si debba riconoscere senza residui nell’augusta figura.  Del Presidente Napolitano riconosciamo la funzione, siamo certi dello scrupolo con cui saprà esercitarla, ci rallegra (se ci rallegra) il fatto che il suo avvento segni la fine di anacronistiche discriminazioni ideologiche, ma ciò non ci obbliga a farne né il nostro eroe né il prototipo delle virtù civiche di cui il paese abbisogna.   Del resto, una delle qualità apprezzabili di questo anziano e cortese signore, che ha svolto con diligenza e profitto un’onorata carriera di burocrate di partito ed è riuscito a passare senza traumi visibili dallo stalinismo al migliorismo, secondo uno schema evolutivo tipico del modello termidoriano che caratterizza la nostra sinistra, sembra essere proprio la non eroicità, una certa evidente refrattarietà alla beatificazione.

      Il guaio è che quella di beatificare il Presidente, per un motivo o per l’altro, è una delle attività più care al paese.  E si capisce anche, visto che non sempre gli ospiti del Quirinale si sono mostrati all’altezza dell’incarico, per cui basta che uno non convochi i comandi dei carabinieri a ogni crisi di governo, non si faccia coinvolgere in oscure trame sotterranee, non faccia le corna in pubblico, non si metta a cantare canzonette ai vertici internazionali e non susciti sospetti di nepotismo, perché lo si assuma, come direbbe il poeta, al concilio dei numi indigeti.   Diffidando dai politici di governo e nutrendo scarso interesse per quelli di opposizione, l’opinione pubblica ha sviluppato con gli anni un acuto bisogno di un padre della patria super partes in cui confidare, da mettere sugli altari e, possibilmente, da portare in processione per fargli benedire i bambini.  E va detto che non si è mostrata schizzinosa in materia: ha perdonato a Pertini la sua stizzosità e il suo narcisismo e a Ciampi la passione per l’Inno di Mameli, esaltandone le capacità di mediazione e moral suasion in misura tale che anche lui ne deve aver provato, sotto sotto, imbarazzo.  Persino una figura vagamente inquietante come quella di Cossiga, che negli ultimi anni del suo mandato ne ha fatte e dette veramente di ogni, è stata riabilitata ex post e il tipo oggi è considerato un personaggio autorevole, il cui parere vale la pena di richiedere e ascoltare con reverenza.

      Chissà se Napolitano  avrà lo stesso destino.  Il fatto che la sua elezione, oltre che da una serie di ricostruzioni giornalistiche ai limiti dell’adulazione, sia stata segnata da fenomeni quali le interviste ai vicini di casa e la trasmissione in diretta delle opinioni del suo macellaio di fiducia non fa esattamente sperare.  Ed è un peccato, perché di padri della patria ne abbiamo avuti parecchi e più che qualche occasionale discorso consolatorio non ne abbiamo ricavato, mentre una figura un po’ più distante, meno coinvolta nel rapporto mediatico con le masse adoranti, capace di fare il suo lavoro con discrezione e pazienza se non sono contenti tutti potrebbe riservarci qualche interessante sorpresa.  Staremo a vedere.


14.05.’06