Quando ero piccolo e mi capitava, a
scuola, di dovermi cimentare con la “analisi logica”, una sorta di elaborata
tortura mentale che allora si usava parecchio e che spero sia, nel frattempo,
sparita, avevo dei problemi con il “complemento di specificazione”.
Mi sembrava, quel complemento, di una straordinaria elusività, forse
perché i criteri che mi avevano fornito per riconoscerlo si riducevano
al fatto che fosse retto dalla preposizione “di” e/o rispondesse alla
domanda “di che cosa?”, il che mi lasciava affatto disarmato di fronte
a espressioni del tipo “prima di sera” e “statua di piombo”, nonché
ai libri “di” Emilio Salgari (sì, lo so, si dovrebbe dire Salgàri) e
al problema di che cosa avrebbe pensato la maestra “di” me. Quelle
perplessità si sarebbero ulteriormente acuite, pochi anni dopo, ai primi
contatti con il genitivo latino, che allora si presentava ai giovinetti
come la forma in tutto corrispondente al complemento di cui sopra, salvo
lasciar loro scoprire, a proprie spese, che non lo si poteva utilizzare
né per la materia, né per l’argomento, né per le sequenze temporali e
che, in ogni caso, quando lo si impiegava per specificare un sostantivo
(come il “di” in italiano, appunto) lo poteva “specificare” in mille
modi e più. Con il tempo, poi, sono riuscito a orientarmi fino a
capire la differenza tra “genitivo oggettivo” e “genitivo soggettivo”,
distinguendo, per quel che serve, la “paura del lupo” che affligge i
porcellini da quella che prova il lupo stesso nei confronti dei cacciatori,
ma resto ancor oggi dell’opinione che un’analisi esaustiva e soddisfacente
di questi usi linguistici sia ancora da fare, anche se, grazie soprattutto
all’opera di Silvio Ceccato e della sua scuola (ammesso che ne esista
una), gli strumenti concettuali necessari, per chi se la sente, ormai ci
sono.
Nell’attesa,
ho paura che agli inermi frequentatori delle scuole elementari e medie
si spieghi ancora che il complemento di specificazione è quello retto dal
di e che la sua funzione è quella di specificare i rapporti dei sostantivi
tra loro, sorvolando sul fatto che difficilmente un modello tanto povero
sarà in grado di dar ragione della infinita ricchezza dei rapporti
che si possono porre tra i sostantivi e tra i soggetti cui i sostantivi
si riferiscono. Il che non è semplicemente un problema di classificazione
o di definizione di modelli linguistici, visto che dall’ignoranza non
emerge mai nulla di buono sul piano dei valori sociali e che c’è sempre
gente che approfitta di questo tipo di ambiguità per perseguire, senza
prendersi il disturbo di dichiararli a nessuno, i propri fini personali.
Il
presidente Formigoni, per esempio. Compiendo chissà quale mossa basilare
nella complicata partita di potere che conduce da tempo con il suo capo,
ha riempito la Lombardia di manifesti formato gigante in cui, accanto a
una fotografia piuttosto melensa del suo bel faccione, afferma di essere,
bianco su verde, “il presidente di tutti”. Di tutti noi
lombardi vuol dire, me e voi compresi, che non è un’affermazione gentile
nei confronti dei molti che da lui dissentono per programmi, tendenze e
ideologie, per non dire dei non pochissimi che pur di non averlo in quel
ruolo hanno compiuto il sacrificio di votare per Diego Masi o Mino Martinazzoli.
Ma pure, in un certo senso (nel senso, diremo, del genitivo soggettivo),
un’affermazione vera, perché è indubbio che su noi tutti quel pio figuro
presieda: lo esigono le leggi della democrazia, nella versione imperfetta
concessaci dal capitalismo. E finché la sinistra continuerà a preferire
alle luci della ragione quelle dei fabbricanti di lampadari suppongo che
colui continuerà a presiederci per un pezzo.
Già,
direte voi, la proposizione sarà anche vera in quel senso, ma non lo è
in quello, per così dire, del genitivo oggettivo. Non è vero che
i lombardi si rispecchino al cento per cento nel suo governo, né che ne
condividano i valori, né, tanto meno, che gli abbiano conferito all’unanimità
il mandato di rappresentarli in quella sede. Si può discutere sul
tipo di rappresentatività dei deputati, che ai sensi della Costituzione
agiscono senza limiti di mandato (per cui a noi milanesi tocca essere rappresentati,
tra gli altri, da Ignazio La Russa e scusate se è poco), ma i presidenti
delle regioni hanno un ruolo tipicamente esecutivo e rispondono solo alla
propria parte politica e al relativo elettorato. Formigoni, si sa,
pone qualche problema in merito, nel senso che non è chiaro se risponda
a Forza Italia, a CiElle, alla Chiesa post tridentina, allo Spirito Santo,
alla Compagnia delle Opere o semplicemente a se stesso, ma questi sono
cavoli – appunto – dei suoi elettori.
È
tutto verissimo, naturalmente, ed è probabile che lo sappia anche lui.
Solo che, per l’occasione, fa finta di no. Si tratta, del
resto, di una mossa caratteristica dell’armamentario politico di tutti
i tempi, quella di chi confonde (o identifica) i progetti di parte con
il mitico interesse generale e in nome del ruolo istituzionale che, a torto
o a ragione, riveste pretende la lealtà di tutti, come se il semplice fatto
di stare al potere garantisca, ipso facto, la capacità di comporre i contrasti
e di dare a tutti senza togliere a nessuno. Da questo punto di vista,
non c’è re, presidente, tiranno, persino, che non tenda ad autoidentificarsi
con il paese su cui esercita il controllo, con l’ovvio vantaggio
di legittimarsi a basso costo e di trasformare oppositori e rivali da rispettabili
avversari politici in spregevoli nemici della patria o, se va bene, in
brutta gente che rema contro. E non so le altre lingue, ma l’italiano,
con quella faccenda dei due genitivi, un pochino aiuta.
Il nostro devoto presidente, anche in
questo caso, non ha inventato nulla di nuovo: come è prassi del suo gruppo
di riferimento (e lasciatelo dire a me, che al liceo ho avuto il dubbio
onore di essere allievo del celebre don Giussani, e queste tecniche ho
imparato riconoscerle da allora) si limita a ripresentare delle vecchie
proposizioni usurate contando per avvalorarle più sulla burbanza con cui
le presenta che sulla loro logica interna. Ma questo, se non altro,
ci fa capire perché varrebbe la pena di risolvere una volta per tutte sul
piano teorico quel problemino di analisi logica che mi affliggeva alle
elementari: per dotarci tutti di uno strumento di analisi che impedisca
a gente come lui di ricorrere con disinvoltura a certi giochini linguistici
che ricordano molto il gioco delle tre tavolette.
09.01.’05