Temo di non essere la persona più adatta
per scagliarmi contro il provvedimento con cui il Parlamento Europeo ha
autorizzato a denominare con il nome glorioso di “cioccolato” dei prodotti
che, fino a ier l’altro sarebbero rientrati, tutt’al più, nel limbo dei
surrogati. Non lo sono, da un lato, perché quello che Linneo definì
il “cibo degli dei” per antonomasia rientra, ahimè, nell’ampio novero
delle golosità che mi sono vietate, né è, tra tutte quelle nocive delizie,
quella di cui sento maggiormente il rimpianto. E, dall’altro, perché
anche quando potevo accedere liberamente a tavolette e bonbon, non ero
quello che si definisce un autentico cultore della materia. Anche
in questo ambito ero di gusti, diciamo così, un po’ troppo tolleranti.
Invece di limitarmi al puro fondente, non senza essermi prima accertato
che avesse un contenuto di cacao pari almeno al settanta per cento, come
avrete appreso anche voi che fanno i veri appassionati, io trescavo con
ogni genere di prodotto. Non mi dispiaceva il cioccolato al
latte (l’amico Felice mi scuserà) e non trovavo nulla da ridire se ci
aggiungevano delle nocciole, intere o in pasta. Non faccio parte,
per ovvi motivi d’età, della generazione della Nutella, ma ho molto amato
i gianduiotti e tra le specialità svizzere sceglievo senza esitare il Toblerone,
in cui, oltre alle nocciole e al latte credo c’entrasse anche il miele.
Insomma, non sono mai stato un purista, il che mi taglia fuori da
una campagna di proteste che in nome, appunto, del purismo viene condotta.
Capirete, che quando si legge che il problema è quello di evitare
che nel nobile prodotto entrino componenti che nulla hanno a che fare con
il cacao, chi ama (o ha amato) delle varianti in cui oltre al cacao si
ammettono latte, miele e nocciole, si sente un po’ tagliato fuori. Definire
i criteri per cui su miele e nocciole si può transigere e sul burro di
noce di mango no, può essere più difficile di quanto sembri. Né gli
uni né l’altro sono cacao. Tanto è vero che a volte mi è capitato
di chiedermi come facevano i cioccolatisti puri ad accettare che nel loro
prediletto fondente ci fosse comunque una certa dose di zucchero.
Ahimè.
Ai tempi di Platone quell’alimento non era noto, il che probabilmente
spiega perché un’idea iperurania di cioccolato non sia disponibile. Il
cioccolato come l’intendiamo noi nasce nella storia, è un invenzione,
e anche abbastanza recente: quello al latte è stato creato nel 1876 da
Daniel Vevey e quello fondente nel 1879 da Rodolphe Lindt. Certo,
non c’è bisogno di essere un purista, per capire che una normativa che
prevede l’uso di componenti di minor valore commerciale e nutritivo, senza,
che – presumibilmente – nessuno abbia la minima intenzione di ribassare
i prezzi al consumo, si avvicina molto alla truffa. E mi dicono che
ci sia molto da dire, dal punto di vista sanitario, sull’olio di palma
e sugli altri grassi vegetali che, adesso, si potranno impiegare al posto
del burro di cacao. E concordo di tutto cuore con chi sottolinea
la necessità di indicare sulle confezioni, chiaramente e in caratteri ben
leggibili, tutte le componenti dei vari prodotti, indicando, magari, quelle
il cui uso è nocivo, come si fa sui pacchetti di sigarette. Ma che,
in questo mondo imperfetto, la lotta per l’equità dei prezzi, per la sanità
dei prodotti alimentari e per la trasparenza delle etichette possa coincidere
con quella per la tradizione e l’autenticità mi sembra, confesso, una
pretesa eccessiva.
E
soprattutto mi sembra una pretesa eccessiva aspettarsi che un organo come
il Parlamento Europeo, per non dire dei partiti e degli uomini che ne fanno
parte, si occupi della nostra salute o dell’equità delle pratiche commerciali.
Le istituzioni europee hanno la simpatica caratteristica di essere
interamente sottratte a controlli democratici di qualsiasi genere, ivi
compreso il Parlamento, che se pure è a elezione diretta, nasce comunque
di riflesso rispetto al dibattito politico nei vari paesi e viene lasciato
per cinque anni a farsi i fatti suoi nel più splendido isolamento che si
possa immaginare. Quella di un’Europa unita è senz’altro una bella idea,
un ideale che esprime fervide e annose speranze, come quella di superare
una buona volta i nazionalismi e di vedere pacificato un continente i cui
popoli hanno sempre dimostrato (e tuttora dimostrano, qua e là) una certa
tendenza a scannarsi tra loro. Ma forse varrebbe la pena di rendersi
conto come, in nome e con la copertura di questi ideali, si sia permessa
la costruzione di un sistema istituzionale particolarmente adatto, vista
l’assoluta mancanza di controlli, a recepire gli interessi consolidati,
in primis quelli della grande finanza e della grande industria multinazionale.
E cosa volete che interessi, a queste strutture, della nostra salute
o delle nostre tradizioni alimentari? Finché continueremo ad accettare
senza discutere l loro potere saremo comunque condannati a mangiare le
più immonde schifezze, in base all’unico criterio del massimo guadagno
possibile per chi ce le vende.
In
compenso possiamo sempre scandalizzarci e sciogliere commossi epicedi alla
cioccolata, “calda come l’Africa, scura come l’angelo della notte, pura
come l’angelo del giorno e dolce come l’amore”, per usare le ispirate
parole di Talleyrand, citate l’altro ieri in prima pagina nel “Corriere
della Sera”, che non è esattamente un nemico delle multinazionali. Potremo
piangere sulla prevedibile sparizione del miele extravergine, sull’estinzione
annunciata del lardo di Colonnata e sull’imminente abolizione dei forni
a legna nelle pizzerie. Per le autorità che prendono le relative
disposizioni, il problema è semplicemente quello di eliminare sistematicamente
ogni possibile concorrenza ai danni dei loro sponsor economici. Per
noi dovrebbe essere, scusate se è poco, quello di invertire a tutti i livelli,
compreso quello europeo, il rapporto tra mercato e politica, tra esigenze
del capitale e necessità del cittadino. Più o meno, significa che
per mangiare del buon cioccolato dovremmo fare la rivoluzione. Non
so voi, ma io non me la vedo così bene.
19.03.’00