Ogni tanto, sia pure di rado, mi capita
che qualcuno – ex colleghi, di solito, o, più di rado, ex allievi – mi
chieda se non provo mai un po’ di nostalgia per la scuola. La domanda
può suonare indiscreta, ma è di quelle che è comunque lecito porre a chi
ha dedicato all’insegnamento buona parte della sua vita adulta e che sulla
scuola e i suoi problemi ha abbondantemente scritto e discettato. Di
solito, dopo essermi debitamente sottoposto ad autoanalisi, rispondo di
no. Sento molto la mancanza del rapporto con gli studenti, anche
perché, da quando non li frequento più giorno dopo giorno, ho l’impressione
di invecchiare più in fretta, ma dell’istituzione scuola, con i suoi riti
calcinati, il suo eterno autoritarismo burocratico e la sua inossidabile
reticenza al cambiamento, riesco a fare a meno benissimo. Diciamo
che l’ho affrontata, per venticinque anni, con grande entusiasmo e passione,
ma che ho capito, alla fine, che si trattava di un amore non ricambiato.
E se il ricordo degli amori non ricambiati talvolta può essere fastidioso,
quel fastidio non è niente di fronte al sollievo di esserne finalmente
fuori.
Ciò
premesso, vi assicuro di non essere mai stato tanto felice di aver lasciato
definitivamente la scuola da quando ho appreso della recente firma del
nuovo contratto per i lavoratori del settore. Ne avrete letto anche
voi, suppongo, visto tutto il can can che ci hanno fatto i giornali: è
quello che oltre a elargire il solito, tutt’altro che entusiasmante aumento
di stipendio, introduce, nel concorde tripudio del ministero e dei sindacati,
il principio per cui, come titola in prima pagina su sei colonne il Corriere
della sera (giovedì 4 marzo), saranno “premiati i professori più bravi”.
Perché,
porca l’oca, nessuno è più favorevole di me all’ipotesi di premiare,
in ogni campo, i più bravi (ci mancherebbe altro che si premiassero i più
incapaci), ma stiamo attenti a come applicare il principio. Da quel
che mi è parso di capire, questi “più bravi” non saranno premiati con
targhe ricordo, medaglie al merito o pacche sulle spalle: il riconoscimento
della loro eccellenza consisterà in sostanziosi aumenti di stipendio. E
come un aumento di stipendio possa essere considerato un premio, francamente,
mi sfugge: lo stipendio retribuisce il lavoro, e il lavoro va sempre svolto,
da tutti, al livello di competenza e di impegno che ogni mansione richiede.
Prevedere l’ipotesi di soprapagare i più bravi, non c’è santi,
significa dare per scontato che in cattedra sieda un certo numero di scalzacani
sottopagati.
E
poi, ovviamente, bisogna decidere chi considerare più bravo degli altri.
È quello che insegna nel migliore dei modi? Sì, certo, dovrebbe
essere lui, ma chi lo dovrà definire tale? Non certo i suoi superiori,
perché i superiori, da che mondo è mondo, tendono a prediligere, tra i
sottoposti, i più arrendevoli e sottomessi e nessuno – credo – intende
premiare il servilismo. Sarebbe, per i giovani in fase di formazione,
un pessimo esempio. E comunque, sulla base di quali criteri si potrebbe
procedere? Quello dei risultati conseguiti dagli studenti, che sembrerebbe,
a prima vista, l’unico possibile, certamente no, perché quei risultati
si vedono sulla distanza e comunque vengono definiti, in gran parte, dagli
stessi insegnanti che dovrebbero determinarli (tanto è vero che ai miei
tempi, e suppongo anche adesso, molti davano per certo che ottimi tra gli
educatori fossero quelli che bocciavano tutti, quelli i cui studenti, cioè,
ottenevano i risultati peggiori).
In
realtà, immagino che per decidere quali insegnanti siano “i più bravi”
non si terrà alcun conto della loro capacità di insegnare. Si terrà
conto (come mi dicono, peraltro, che succede già adesso, di tutte quelle
attività collaterali e organizzative cui i docenti sono chiamati per strutturare
l’azienda scuola) Gli organizzatori di attività extra; gli elaboratori
di progetti aggiuntivi; gli zelatori dei corsi di aggiornamento; i responsabili
di classe, di corso, di materia e di modulo; quelli capaci di stilare i
progetti, perché stilare i progetti nella scuola è molto importante) e
di organizzarne l’esecuzione. Quelli, cioè, che assumeranno autorità
sui colleghi e ne indirizzeranno e controlleranno l'operato. È in
questo senso, probabilmente, che vanno intese le dichiarazioni del Ministro
e dei leader sindacali, che si compiacciono in coro per la fine di quella
fastidiosa anomalia rappresentata finora, per i lavoratori della scuola,
dall’impossibilità di fare carriera. Una carriera che evidentemente
significa stratificazione, e non solo dal punto di vista salariale. Il
massimo impegno richiesto agli insegnanti, d’ora in poi, sarà quello per
guadagnarsi quanti più privilegi possibile a danno degli altri, privilegiando
allo svolgimento della propria funzione la conquista e il mantenimento
di una propria posizione di potere, sia pur miserabile e subordinata. Quanto
agli studenti, si arrangino pure: dovranno vivere, comunque, in un mondo
stratificato, in cui la subordinazione sarà legge per tutti e in cui carriere,
privilegi e potere saranno distribuiti in modo ineguale: perché dovrebbero
avere una scuola d’altro tipo?
Però,
che fortuna essersene andato in tempo.
07.03.’99