Contrappasso tropicale

La caccia | Trasmessa il: 10/24/2010


    Vi posso assicurare che non sono uso frequentare i paradisi tropicali, né a scopo turistico né per fini fiscali. Ad Antigua, tuttavia, una volta, una ventina di anni fa, ci sono capitato. Era – non ve ne stupiate – un sito di vacanze abbastanza economiche. L'unico tipo di turismo davvero diffuso era quello nautico, nel senso che l'isola, data la posizione geografica e la presenza della splendida insenatura naturale di English Harbour, il porto in cui Nelson riunì la sua flotta prima di Trafalgar, era (ed è) il naturale punto di partenza e di arrivo per chi intendesse cimentarsi nella traversata atlantica a vela. Di velisti, così, ce n'erano in giro parecchi, ma – visto che traversare l'Atlantico a vela non è cosa da tutti – non esattamente del tipo che alligna oggi a Portorotondo e dintorni. Costoro naturalmente risiedevano a bordo e nelle varie “marine” e se ne stavano molto per conto loro, per cui a terra era possibile trovare alloggio a basso prezzo con una certa facilità. Certo, bisognava mettere in conto il prezzo del biglietto aereo – la rotta più economica era quella via Amsterdam, Curaçao e Sint Maarten – ma non era poi una cifra proibitiva.
    Comunque quell'isola era davvero un paradiso. Paesaggi costieri incredibili, colline verdissime, da cui spuntavano, come piccoli nuraghi, i resti delle fornaci da zucchero, testimonianze di una economia da piantagione ormai al declino, e spiagge, tante incredibili spiagge di sabbia bianchissima orlate da palmeti. Ce n'erano, stando alla voce corrente, trecentosessantacinque, così da permettere a chi lo volesse di sceglierne una diversa al giorno per un anno intero, esclusi i bisestili, ed era roba da far girare la testa. Anche l'insediamento umano era, come si direbbe oggi, affatto sostenibile: una piccola capitale molto britannica, un po' strapelata, ma molto dignitosa, tanti villaggi di casette monofamiliari di legno colorate a tinte vivaci (si chiamavano tutti Freetown, o Liberty, o qualcosa del genere, in memoria dell'abolizione della schiavitù del 1833), due o tre ville abitate ancora dalle famiglie degli ex piantatori, all'interno dei loro parchi secolari, un paio – non più di un paio – di pacchiani resort americani con i loro assurdi campi da golf e le motociclette d'acqua sulla spiaggia e, praticamente, basta. Non era certo un paese ricco, ma gli abitanti (ex piantatori a parte, suppongo) erano orgogliosi della recente indipendenza, si davano un gran da fare per uscire definitivamente dalla monocultura della canna da zucchero e avevano già raggiunto, comunque, il livello di vita più alto di tutta l'area. CI sono stato solo pochi giorni, ma dopo tanti anni lo ricordo ancora con simpatia.
    Ahimè. Non credo di avere, ormai, molte possibilità di tornarci. E non sono sicuro, comunque, di volerci tornare. Da quel che ho visto in questa settimana nei servizi giornalistici e televisivi dedicati agli interessi immobiliari che ha in quel paese il nostro amato capo, Antigua dev'essere cambiata parecchio. I resort si sono moltiplicati a dismisura (in Internet si trovano degli elenchi di dozzine di pagine), ma pazienza. Il fatto è che le località più belle sono scomparse sotto la classica coltre di cemento: Emerald Cove, la “baia di smeraldo”, dove è sita la megavilla dell'Uomo di Arcore, quella che giornalisti e locali chiamano – sembra – “il castello” – e lui definisce più sobriamente “il condominio”, è ridotta a una lottizzazione di centosessanta ettari, per otto chilometri di ex spiaggia, su cui sorgono, oltre al castello-condominio di cui, un centinaio di ville, tutte uguali e non molto diverse, a giudicare dalle immagini, dalle villette a schiera che allietano il paesaggio della dolce Brianza. La capitale è soffocata dai grattacieli delle banche specializzate in operazioni off-shore. I villaggi ci sono ancora e suppongo conservino quei poetici nomi, ma sono sulla via di diventare in tutto e per tutto delle baraccopoli. I giornalisti continuano a parlare del posto come di un buen retiro per magnati, ma per ritirarsi in quelle specie di stie destinate ai turisti bisognerebbe essere un magnate con forti tendenze masochistiche. E, a proposito di stie, è vero che la residenza del Nostro sovrasta per dimensioni le altre, come una chioccia tra i pulcini, ma per tipologia e aspetto gli è perfettamente conforme e delle varie definizioni che ne sono state date quella di “condominio” sembra proprio la più azzeccata. E perché mai un uomo che dai condomini si è definitivamente affrancato – anche se continua a figurare come residente in via San Gimignano – dovrebbe apprezzare l'ex Emerald Cove, non è proprio dato capire.
    Ma il problema, per una volta, non è Berlusconi, anche se a tutti noi, naturalmente, piacerebbe sapere qualcosa di preciso dei suoi traffici all'estero. Il fatto è che in questo mondo sublunare globalizzato il godimento delle bellezze della natura ha ceduto il passo, da tempo, allo sfruttamento di quelle stesse bellezze e questo comporta, come in tutti gli altri casi di sfruttamento, la distruzione dell'entità sfruttata. L'edilizia turistica sta ricoprendo a macchia d'olio alcune delle zone più affascinanti del pianeta – le isole greche, le coste del Mediterraneo, le vallate alpine... – e i risultati, purtroppo, si vedono. Il fenomeno non è recente: è cominciato agli inizi del secolo scorso, quando i primi plutocrati desiderosi di evadere dalle angustie cittadine cominciarono a innalzare ville faraoniche in Costa Azzurra, in Engadina, a Varadero, sulle coste del Maine e in posti del genere, ma è legge inesorabile del capitalismo quella di non potersi mai fermare, di dover sempre accelerare il ritmo delle proprie imprese e da quando l'industria delle vacanze è diventata un fatto di massa, alle singole ville isolate in paesaggi altrimenti incontaminati sono succeduti i gruppi di villotte un poco più contaminanti, e a questi quelle estensioni di villette che non contaminano solo perché non resta più niente da contaminare. I disgraziati che se le sono fatte affibbiare hanno subito, ovviamente, una vera e propria truffa, ma non sono stati i soli a rimetterci. La cosa riguarda anche i magnati primigeni e i loro rampolli, che hanno venduto con entusiasmo i terreni attorno alle loro magioni e ci hanno fatto anche dei bei guadagni, ma, per un'ovvia forma di contrappasso, si sono al tempo stesso autoespropriati dal piacere che da quei luoghi potevano trarre. Che piacere si può trarre – scusate – dal seppellirsi nel formicaio residenziale di Emerald Cove? Persino Berlusconi ha ammesso che il posto non gli piace e infatti non ci va mai (il che autorizza, naturalmente, a chiedersi perché ci abbia messo tutti quei soldi). Restano, s'intende, dei posti carissimi ed è questo particolare, forse, che scioglie la contraddizione, nel senso che per chi non è mai riuscito a distinguere tra il valore d'uso e quello di scambio vivere in un posto molto, ma molto caro, può essere un piacere. Ma qui ci muoviamo in un'area di confine tra l'economia politica e la psicopatologia. Non vorrei fare del facile moralismo, ma è abbastanza noto che non si possono servire due padroni e Mammona, anche se non sembra, è un padrone molto, ma molto esigente.
24.10.'10