Questa mattina, ve lo confesso, sono
venuto in radio in auto. Non in violazione del blocco del traffico,
naturalmente: godo di regolare deroga, in quanto giornalista in servizio,
e soffro, per di più, di qualche problema di salute che in questa stagione
mi preclude l’uso della bicicletta e mi renderebbe difficile quello dei
mezzi pubblici, anche se sul percorso ne esistesse qualcuno. Tuttavia,
nelle precedenti giornate in cui quel blocco era stato disposto, fosse
l’iniziativa dovuta a pericolose impennate della quantità di inquinanti
nell’aria o, semplicemente, alla volontà di educare i cittadini alle gioie
del trasporto collettivo, avevo sempre cercato di organizzarmi diversamente,
di ingegnarmi meglio che potevo a fare a meno dei mezzi a motore, in ossequio
al principio per cui, nelle emergenze collettive, ciascuno è tenuto a dare
il suo contributo, per scarso che sia. Ma questa volta, che volete
che vi dica, non ce l’ho fatta. Ho chiesto alla nostra efficientissima
segretaria di redazione il prescritto pezzo di carta, ho messo nel portafoglio
il tesserino dell’ordine ed eccomi qua.
Intendiamoci. Non è stata, questa
mia, un’abiura improvvisa. Nelle sospensioni domenicali del traffico
privato non ho mai avuto – come voi tutti, suppongo – una grande
fiducia. Ho sempre saputo che si trattava di divieti dal valore affatto
simbolico, che impedire di usare l’auto di domenica serve a ben poco,
che il problema sta a monte, nella preponderanza del riscaldamento a gasolio
e nell’insufficienza della rete autofilotranviaria, visto che Milano,
con tutte le arie di grande città che si dà, in cinquanta anni, è riuscita
a dotarsi di tre sole striminzitissime linee di metropolitana e comunque
chi elegge un sindaco che ha voluto a ogni costo i poteri di commissario
straordinario al traffico e li usa quasi solo per costruire dei nuovi parcheggi,
per attirare, cioè, sempre più automobili in centro e pazienza se bisogna
fare un’ecatombe di alberi, i suoi guai se li cerca e non gli resta che
consolarsi, come faceva il “Corriere” ieri, con la constatazione che
“il nostro concetto di salute” oggi è “diverso rispetto ai decenni scorsi”
e, comunque, in città come Manila, Lima o New Delhi l’inquinamento è dieci
volte maggiore. Ma avevo sempre pensato che qualcosa è sempre meglio
di niente e che anche da quelle discutibili iniziative un minimo di vantaggio
per tutti se ne poteva, con un po’ di buona volontà, ricavare.
Oggi no. Queste sei ore
di blocco festivo in due turni, studiate in modo di recare il minor danno
possibile ai negozianti che tengono aperto per i saldi ed evidentemente
decise da un’autorità riluttante a puro titolo di scarico di coscienza,
non rappresentano soltanto l’ennesimo provvedimento farsa e non esprimono
solo l’evidente intenzione di privilegiare gli interessi economici di
pochi rispetto alla salute di tutti. Sono, se mi concedete il termine,
qualcosa di più della solita presa per i fondelli. Il disagio senza
contropartite che infliggono ai cittadini ha uno spiccato valore espiatorio,
come se si trattasse di un sacrificio rituale offerto in cambio della autorizzazione
a continuare a fare senza rimorsi ciò che si è sempre fatto. Accettarle
senza protestare, a questo punto, rasenta pericolosamente la complicità.
E non statemi a dire che approfittare
dei propri privilegi di categoria per eludere un divieto, per quanto inutile
e ingiustificato, non rappresenta esattamente una forma di protesta.
Lo so benissimo e, in effetti, se solo avessi potuto me ne sarei
ben guardato anche stavolta. Ma non ha neanche senso accettare una
logica che tutto spinge a considerare ipocrita e nociva. Chi obbedisce
senza fiatare ai divieti cretini fa del male anche a te. Digli di
smettere.
16.01.’05