Se le elezioni di Catania si fossero
svolte un mese fa, in concomitanza con le regionali, il loro esito non
avrebbe fatto più chiasso, come dice il poeta, delle lacrime di un passero.
L’insediamento sociale e le tradizioni politiche di quella città
sono quello che sono ed è comunque abbastanza ovvio che, a prescindere
dai sondaggi, la legge elettorale vigente da al sindaco in carica un robusto
vantaggio, specie quando gli si contrappone un personaggio che, per quante
benemerenze civiche abbia acquisito in passato, non ha dimostrato, né come
ministro né negli impegni politici successivi, un talento particolare.
E dato che il voto amministrativo può servire da indicatore delle
tendenze politiche generali solo quando riguarda porzioni abbastanza ampie
e differenziate del territorio, il centro sinistra avrebbe potuto accettare
la conferma di Scapaccini sotto l’Etna con la stessa equanimità con cui
aveva accolto quella del pio Formigoni qui in Lombardia. In fondo
si è trattato in entrambi i casi di una conferma “in discesa”, con un
bel po’ di voti in meno rispetto alla volta prima. Altra era (ed
è) la tendenza su scala nazionale e su questo sarebbe stato giusto e opportuno
riflettere e far riflettere.
Macché.
Dopo il trionfo alle regionali, la conferma in Basilicata e quella
in Trentino e in Sardegna, i capintesta dell’Unione, come si definiscono
adesso, dovevano avere proprio una gran voglia di perdere. Non si
sarebbero precipitati, se no, ad accettare il punto di vista di chi vedeva
nel voto a Catania la madre di tutte le battaglie e non avrebbero proiettato
con tanta ingenuità su quel risultato le speranze di mandare subito a casa
Berlusconi. Avrebbero risposto alla sfida con un allegro “ma va’”
e si sarebbero concentrati sul compito, piuttosto urgente, di dare a una
coalizione malferma quel tanto di solidità necessario per tirare avanti.
Con il che Berlusconi, che ha vinto a Catania, ma ha perso in quasi
tutto il resto di Italia, avrebbe dovuto fare i conti con quella sgradevole
situazione. Invece, adesso lo sciagurato è più vispo che mai e i
principali commentatori, che fino a domenica non parlavano d’altro che
delle trame intessute dall’infido Casini per fargli la festa, sono liberi
di occuparsi con dovizia di particolari degli scambi di ceffoni tra Rutelli
e Fassino, che, visto che nulla scoraggia l’elettorato quanto la percezione
di una diffusa rissosità nella propria coalizione di riferimento, è un
modo ingegnoso di spostarsi di campo senza prendersi neanche il disturbo
di dichiararlo.
Forse,
però, non è il caso di attribuire in toto questo capovolgimento percettivo
all’eterna vocazione a farsi del male che caratterizza le forze progressiste
del paese, se vogliamo continuare a chiamarle così. Il fatto è che,
negli ultimi dieci anni, le regole del gioco politico, i meccanismi di
formazione e di registrazione del consenso, si sono trasformati parecchio.
La contrapposizione tra proporzionale e maggioritario che ha segnato
la crisi del sistema democristiano ormai è preistoria. I voti, in
qualsiasi modo li si conti, interessano sempre meno. Il potere nasce
altrove, dalla quantità di esposizione televisiva (e giornalistica) che
ciascuno può accaparrarsi, dalla frequenza delle sue apparizioni, dalla
sua capacità di farsi personaggio e notizia. Berlusconi, nelle sue
continue geremiadi sulla televisione che non gli vuol bene, sarà forse
un po’ paranoico e sicuramente è assai spudorato, ma dà prova di sano
realismo. Non si lamenta perché l’elettorato lo abbandona, ma perché
la televisione – a suo dire – non gli dà abbastanza spazio, come se fosse
convinto (probabilmente lo è) che questo sia il problema base. Dell’elettorato
deve avere la stessa idea che Napoleone, si licet, aveva delle salmerie:
presto o tardi, dandogli il tempo, arrivano anche loro, ma il vero stratega
deve occuparsi di altro. È una lezione, questa, che qualcuno ha imparato
anche nel campo avverso, per esempio il buon Bertinotti, che non a caso
vede crescere la propria influenza e il proprio peso politico anche se
il suo partito, dal punto di vista dei voti, un po’ arranca.
Si
tratta, in ultima analisi, di una variante contemporanea del vecchio assioma
per cui la notizia conta più del fatto, anzi di solito lo determina. E
nella logica delle notizie, si sa, quella che conta è l’ultima: la penultima,
be’, la penultima è roba di ieri, giornalisticamente irrilevante, di scarso
o nullo appeal comunicazionale, buona al massimo per incartarci le verdure
al mercato. Anzi, visto che le notizie, come è noto, su carta non
circolano più, non serve neanche per quello.
Insomma,
il voto di Catania non ha rappresentato soltanto la conferma di un
sindaco e di una maggioranza (fatto in sé lecito e non disdicevole, soprattutto
se si considera l’alternativa che a quei poveri elettori veniva proposta).
È stata anche la conferma di quanto sia clamorosamente truccato il
gioco politico cui siamo chiamati a partecipare. Peccato soltanto
che di una conferma del genere non avessimo davvero bisogno.
21.05.’06