Una notiziola sommersa nell’oceano
di piombo dedicato dai giornali alle polemiche sul cosiddetto “pacchetto
sicurezza”, come a dire alle risse tra Bianco e Diliberto, alle smentite
di Violante, alle assicurazioni di D’Alema, alle provocazioni del Polo
e al connesso sciocchezzaio politico parlamentare, tutta roba che il lettore
di buon senso lascerebbe perdere volentieri, se non riguardasse – ahimè
– un problema serio come la libertà dei cittadini e la dignità delle strutture
giudiziarie, ci ha informato, giovedì scorso, che la Commissione Giustizia
della Camera ha preso finalmente una decisione concreta. Ha votato
l’articolo 2 del provvedimento predisposto dal governo, secondo il quale
“la sospensione condizionale della pena è ammessa soltanto se il giudice
ha specifici elementi per ritenere che il colpevole si asterrà dal commettere
ulteriori reati.” Una misura, assicura tranquillamente D’Alema,
che, al pari di tutte le altre in via di approvazione non comporta “una
svolta antigarantista”.
Non
abbiamo motivo – naturalmente – di dubitare delle assicurazioni del Presidente
del Consiglio. Ma qualche dubbio quell’articolo ce lo lascia lo
stesso. E come diavolo farà il giudice, ci chiediamo, all’atto di
decidere se concedere o meno la condizionale a colui che condanna, a sapere
per certo che costui si asterrà, in futuro, dal delinquere ulteriormente?
Il futuro, si sa, è sulle ginocchia degli dei e futili e vani sono
i tentativi degli uomini di prevederlo. A meno che il Ministero non
abbia stanziato i fondi necessari per dotare ogni tribunale dell’apposita
sfera di cristallo – un provvedimento di cui non c’è traccia nella Finanziaria
in vigore – sarà ben difficile che il povero magistrato disponga degli
elementi concreti che la nuova legge gli impone di prendere in considerazione.
Ma
su un argomento del genere, forse, non è il caso di scherzare. Un
articolo di legge che lega la concessione di un beneficio a una previsione
sull’uso che ne farà il beneficiario non è proprio una cosa da niente.
La sospensione condizionale della pena è sì un beneficio legato a
certe condizioni (non per niente si chiama così), ma quelle condizioni,
com’è logico, riguardano il presente e il passato, perché altrimenti non
sarebbe nemmeno possibile riconoscerne la sussistenza. La pena, com’è
prevista oggi, non deve superare i tot anni; il reo, al momento della condanna,
dev’essere incensurato; non devono sussistere, adesso, determinate aggravanti,
e così via. È ovvio che dalla presenza (o dall’assenza) di quelle
condizioni sarà possibile inferire qualcosa sul futuro, ma appunto di inferenze,
e non di “concreti elementi”, si tratterà sempre. La nuova formulazione
nel migliore dei casi è superflua, nel senso che ben difficilmente gli
elementi da prendere in considerazione saranno diversi da quelli che già
si considerano adesso, e nel caso peggiore è semplicemente demenziale:
nulla di cui una Commissione del Parlamento italiano possa o debba menare
vanto. Anche perché se uno stabilisce il principio per cui si deve
prevedere il futuro per mettere fuori qualcuno, nulla vieterà poi di affermare
che un’analoga previsione è più che sufficiente per mettere qualcun altro
dentro. Perché no? Io giudice dispongo di “elementi concreti”
per decidere che tu cittadino sei in procinto di commette qualche reato
e visto che è sempre meglio prevenire che reprimere decido seduta stante
di sbatterti dentro. Poi si vedrà.
È
ben strana, in realtà, questa campagna sulla sicurezza che periodicamente,
a intervalli sempre più brevi, affligge l’opinione pubblica e il mondo
politico. Tutti gli esperti ci ripetono che l’insicurezza che affligge
la nostra società non dipende che in minima parte dai fenomeni delinquenziali
e dalla violenza criminale, per non dire della propensione a delinquere
di chi ha goduto in passato di un provvedimento di clemenza. Lo sanno
tutti che le percentuali di detenuti scarcerati che abusano della fiducia
concessa sono risibili, che il numero dei reati di sangue e dei fatti di
violenza è in costante diminuzione, che la nostra società è infinitamente
meno violenta di pochi decenni or sono (il numero di omicidi per ogni 100.000
abitanti è passato, in Italia, dai 14 del 1880 ai 2 e qualcosa del 1995,
per citare il primo e l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati ISTAT).
Gli elementi di insicurezza sono ben altri e nessuno si preoccupa minimamente
di eliminarli. Anzi, è sulla promozione dell’incertezza che si fondano
– a ben vedere – il preteso “rinnovamento” e il conclamato ammodernamento
che la nostra classe dirigente persegue e non basta chiamarla “flessibilità”
per eliminare il problema. Così, il posto di lavoro è sempre più
precario, le condizioni in cui si lavora si fanno sempre più rischiose,
le prospettive di godere di qualche assistenza e di andare a suo tempo
in pensione appaiono sempre più incerte e la fiducia nella certezza delle
leggi e in una loro serena applicazione è sempre meno giustificata.
In
effetti, visto che nella follia di chiunque dev’esserci sempre un poco
di metodo, suppongo che, ai fini concreti, quell’articolo 2 significherà
soltanto che i magistrati, nel dispensare i benefici di legge, goderanno
di un margine maggiore di discrezionalità. Che in nome dell’incertezza
del futuro (appunto) potranno passar sopra a quanto raccomanderebbe il
presente. Per chi ritiene, e non siamo in pochissimi, che la magistratura
disponga già ora di fin troppa discrezionalità, visto che è sul libero
convincimento del giudice, e non sulla cultura della prova, che si fondano
le sentenze, non è certo un gran passo avanti. Ma per chi ritiene
che il metodo migliore per non fare venire alla gente troppe idee strane
sia quello di contrapporre alle incertezze reali del nostro tempo delle
incertezze fantastiche e ipotetiche, di offrire, in altre parole, al popolo
bue dei capri espiatori contro cui scagliarsi per impedirgli di affaticarsi
nell’esercizio del pensiero critico è senz’altro una gran bella idea.
20.02.’00