Comportamenti standard

La caccia | Trasmessa il: 05/06/2012


    Comportamenti standard

    Chissà cosa avranno pensato della laurea albanese di Renzo Bossi i suoi elettori (o ex elettori) padani. Avranno approvato in cuor loro l'intraprendenza del giovane avannotto, che, ostacolato dalle norme ministeriali – espressione della burocrazia centralista romana – nel legittimo desiderio di ottenere un titolo di studio, ha saputo provvedere in proprio? O avranno disapprovato aspramente il fatto che quel diploma il rampollo del capo se lo sia andato a cercare a Tirana, che non solo è piuttosto in basso quanto a latitudine (più o meno all'altezza di Bari), ma è il capoluogo di un paese da cui mossero a suo tempo verso l'Italia orde di allogeni indesiderati? Personalmente, io che in Padania, dopo tutto, son nato, ma non faccio parte della categoria, mi sento punto soprattutto dalla curiosità. Chi glielo ha fatto fare al poveretto di spendere denaro e fatica (e va be' che il denaro sembra non fosse suo, ma sempre una spesa è stata) per procurarsi quel pezzo di carta? Non certo la necessità, perché per la carriera cui era allora indirizzato, quella di erede politico del papà, un titolo di studio non era esattamente indispensabile, né per altri possibili sbocchi professionali che il giovanotto potesse avere in mente quel particolare attestato poteva avere utilità alcuna. E neanche la pura vanagloria, il desiderio bruciante di essere insignito del titolo di dottore, perché persino uno come lui poteva rendersi conto che tra la laurea in economia aziendale della Università Kristall di Tirana e – mettiamo – un master a Harvard o alla Bocconi corre una certa differenza e di quel titolo non era il caso di menar troppo vanto.
    L'unica ipotesi che – dopo matura riflessione – mi sia venuta in mente è quella che a quel passo l'ex consigliere regionale sia stato spinto dai suoi mentori familiari e politici e che costoro, a loro volta, fossero mossi soprattutto dal desiderio di adeguarsi ai comportamenti standard del loro elettorato di riferimento. Mi spiego: avrete notato anche voi con quanto puntiglio i pezzi grossi della Lega si attengono alle prassi consolidate del ceto di cui soprattutto difendono gli interessi, della galassia dei piccoli e minimi imprenditori settentrionali, quelli dei cummenda e dei ragiunàtt che, in linea di principio, le tasse fanno di tutto per non pagarle, i regolamenti se appena è possibile li eludono, ai controlli delle autorità si sottraggono con pervicacia, le assunzioni le fanno preferibilmente in nero e quando i figli sono allontanati con cortesia (per non dire cacciati a calci) dagli istituti scolastici “normali” li mandano a fare – appunto – un biennio, un triennio, un quadriennio, un quinquennio di “recupero” presso apposite istituzioni a pagamento. Ora, a giudicare dalle ultime acquisizioni della magistratura, non si può negare che quanto a renitenza fiscale, ripugnanza ai controlli e disinvoltura regolamentare si sia instaurata tra rappresentati e rappresentanti, tra Lega e popolo padano, una certa mirabile sintonia, che del successo di quel partito è la migliore delle garanzie e che la carriera scolastica del figlio di Bossi ha, in un certo senso, confermato e consolidato. Anche lui, dopo le note vicissitudini liceali, è ripiegato su quel tipo di maturità e il fatto che abbia voluto (o dovuto) laurearsi presso un ateneo – privato – che permette di comprimere tre anni di corso in uno non è altro che una manifestazione di esemplare coerenza. Una cosa che elettori e simpatizzanti non possono che comprendere e apprezzare.
    Ne ho conosciuti parecchi, quando insegnavo, di privatisti dei bienni e dei trienni di recupero. Capirete: agli esami di maturità mi facevo assegnare di preferenza il ruolo del rappresentante di classe (il “membro interno”, come si diceva) e tra tutti i membri interni, non ho mai capito bene perché, ero sempre io quello cui toccava sostenere, oltre a quelli dei propri studenti, gli interessi dei privatisti. Ce ne erano alcuni che si distinguevano dalla media in quanto mossi da ragioni serie, di salute, di famiglia o altro, ma gli altri appartenevano quasi tutti a un modello culturale preciso: non erano particolarmente ignoranti, non molto più ignoranti – almeno – di quanto fosse, in quegli anni agitati, il liceale medio, ma si caratterizzavano comunque per lo stesso identico disinteresse verso la scuola, le sue richieste, la sua dialettica, ciò che vi ci si insegnava. Non avevano il minimo sospetto che tra il titolo di studio cui ambivano e la propria cultura personale (quel minimo di cultura che potevano avere) potesse esserci una qualsivoglia connessione. Volevano il diploma perché senza non avrebbero potuto accedere all'università e avrebbero perso qualsiasi speranza di subentrare ai genitori alla testa dei loro studi medici, legali, notarili, commerciali, delle loro farmacie, delle loro piccole aziende, quelle in cui, per tradizione, il boss è “il dottore”, anzi “il dutùr”, ma i contenuti di quel diploma gli erano affatto indifferenti. Non gli servivano, come non servivano alle loro famiglie, la cui posizione era affermata una volta per tutte e il cui censo consideravano in via definitiva al sicuro. Era questo, in fondo, che gli interessava e questo gli avevano insegnato i loro maggiori. Avevano una vaga idea, forse, del fatto che con i soldi non si potesse comprare la cultura, ma la cultura, in sé, non gli interessava affatto. Il diploma invece sì, perbacco, ed erano appunto lì per comprarselo.
    Non bazzico più la scuola da un pezzo e non so se questi comportamenti standard siano ancora in vigore, ma la vicenda della laurea albanese di Renzo Bossi me lo fa fortemente sospettare. D'altro canto l'ambiente in cui hanno origine e allignano è sempre quello e sappiamo dalle testimonianze di chi gli è stato vicino che il bravo giovane, facendo onore al suo soprannome, vi ci si muove come un pesce nell'acqua. Questa omogeneità ideologica gli sarà sicuramente preziosa in futuro. Non abbiate fretta a dare definitivamente per conclusa la carriera politica del Trota: potrebbe riservarci delle sorprese.