Vi siete mai chiesti cosa possa pensare, se pensa, il generale Augusto
Pinochet in questi giorni di quasi detenzione londinese? Io non mi
azzarderei a fare ipotesi. È già abbastanza difficile cercare di
penetrare i processi mentali degli esseri umani, figuriamoci con uno come
lui, che tanto umano non è. Può darsi che creda davvero di subire
un torto, di non avere colpe di cui difendersi davanti alla Camera dei
Lord, ai tribunali spagnoli o alla storia. Può darsi che il vecchio
macellaio sia sinceramente convinto che il tradimento, il golpe e la dittatura
siano state davvero azioni necessarie e meritorie perché il Cile nel ’73
stava per cadere in mano all’Unione Sovietica e che la morte di Salvador
Allende vada considerata, come ha avuto il coraggio di dichiarare, un suicidio,
dovuto all’ostinazione a non accettare le “garanzie di sicurezza” che
lui, il generale fellone, gli aveva offerto. Ciascuno difende la
propria immagine come può, anche e soprattutto di fronte a se stesso.
Di una cosa, tuttavia, deve essere convinto anche lui. Del fatto
che, se come sembra purtroppo probabile, riuscirà a cavarsela, se i Lord
mercoledì prossimo lo autorizzeranno a tornare, non sarà certo perché la
giustizia internazionale avrà ritenuto validi i suoi poveri argomenti,
compreso quello dell’irresponsabilità e dell’incolumità che gli toccherebbero
in quanto ex capo di stato. L’avere a che fare con un ex capo di
stato, o – quanto a questo – con un capo di stato in carica, non ha mai
impedito a governi e tribunali di punire coloro che intendono punire, una
volta che siano riusciti a mettergli le mani addosso. Ricordatevi
di cosa è successo a Noriega, che, per quanto ne so, deve essere ancora
rinchiuso in qualche prigione della Florida, o pensate a cosa succederebbe
a Saddam Hussein se finisse nelle mani dei suoi nemici americani o britannici.
Ma il fatto è che Pinochet non è nelle mani
dei suoi nemici. È, molto metaforicamente, nelle mani delle autorità
inglesi, di un governo, cioè, che sarà anche di sinistra, figuriamoci,
ma non ha mai messo in discussione, anzi, continua impavido a sostenere
il ruolo egemonico a livello mondiale degli Stati Uniti e il sistema politico
internazionale che su di esso si fonda. Lo si è visto benissimo anche
nel corso dell’ultima crisi iraqena. E spero che nessuno si sia
dimenticato di come il golpe cileno del ’73 non sia stato – ripeto: non
sia stato – programmato , voluto e organizzato dal generale Pinochet.
Lui lo ha eseguito e gestito, certo, e ne ha gestito per quattordici
anni e passa gli esiti, ma non è un segreto per nessuno che a volere e
predisporre quella sanguinosa rottura della legalità democratica furono,
per conto del loro governo, i servizi segreti americani. Non per
niente il Cile della dittatura è stato il primo paese del Sud del mondo
a sperimentare sulla propria pelle, oltre che la vecchia, sperimentata
violenza dei militari, la nuova violenza delle ricette economiche che i
paesi ricchi impongono a quelli poveri. Dei padroni del mondo Pinochet
è stato, al tempo stesso, servo e complice ed è su questo, in sostanza,
che si fondono le sue residue speranze di salvezza. Quando dalla
giustizia si ha tutto da temere, deve essere confortante sapere di poter
contare su qualche solida complicità.
Oh, a proposito. Dire che si ha tutto da temere dalla giustizia non
significa, naturalmente, che si ha tutto da temere dai giudici. I
giudici spesso hanno le mani legate. Anche un magistrato milanese,
un esponente di quella Procura di cui non ci stanca di lodare le benemerenze
democratiche, ha deciso che a una denuncia presentata contro il dittatore
cileno nella nostra città non si poteva dar corso. Avrà avuto sicuramente
tutte le ragioni e non sarò certo io a lamentarmi di un caso di rigida
applicazione delle norme poste a garanzia di chi viene accusato. Ma
è una bella scarogna, lo ammetterete, che le garanzie e il garantismo,
che talvolta sono considerati un di più, se non un impaccio ai fini della
giustizia, funzionino sempre per tipi come il generale Pinochet.
22.11.’98