Una volta, nell’Italia piccolo borghese
in cui sono cresciuto, il gioco era un vizio. Di chi, nella propria
cerchia di conoscenze, ne era affetto si parlava, quando se ne parlava,
a bassa voce, per allusioni, come si faceva sempre per le pecore nere delle
famiglie rispettabili, quelli che erano un po’ troppo disinvolti con le
signore, o bevevano o avevano – Dio ne scampi – un debole per i ragazzini.
E si capisce, perché la passione per i casinò contraddiceva in toto
i parsimoniosi ideali di una società che rispettava il denaro e la fatica
che, almeno in teoria, bisognava fare per guadagnarselo, non meno di quanto
la propensione all’adulterio o peggio mettesse in discussione la morale
riconosciuta. Chi arrischiava i propri risparmi alla roulette metteva
in forse il regolare pagamento dei mutui della casa, la dote delle figlie
e la possibilità stessa di far salire la sua famiglia su per la scala sociale.
Oggi,
naturalmente, di queste cose si preoccupano in pochi e forse è meglio così.
Il gioco d’azzardo è un fatto di massa, largamente pubblicizzato
sui media, Radio Popolare compresa, e gestito da uno Stato, che sui relativi
profitti fa conto per risolvere non pochi problemi, a partire dalla conservazione
del patrimonio artistico nazionale. E se è vero che, in linea di
fatto, non è facilissimo rovinarsi giocando al lotto, o alle sue varie
derivazioni, è anche vero che il dissoluto gaudente di un tempo, quello
che scommetteva sulla possibilità che “uscisse” un numero su trentasei,
con la prospettiva, tutto sommato abbastanza onesta, di vincere, se gli
andava bene, trentasei volte il piatto, ci appare un investitore cauteloso
e prudente se lo confrontiamo con quanti tentano due volte la settimana
di azzeccare una combinazione di sei numeri su centodieci milioni di probabilità,
e senza che il premio promesso sia in alcun modo proporzionale a questo
fattore di rischio.
D’altronde,
ditemelo voi, come si fa a non giocare al Superenalotto? Come si
fa a resistere alla pressione di una campagna di stampa che, giorno dopo
giorno, settimana dopo settimana, ci parla, senza ovviamente scendere nei
particolari statistici, della possibilità di vincere due, tre, quattro,
quaranta, sessanta miliardi con una schedina da milleseicento lire? Quando
la televisione intervista non i vincitori, che, sagacemente, si guardano
bene dal farsi trovare, ma i giocatori in fila davanti ai botteghini e
ne riceve risposte del tipo di “no, quaranta miliardi sono troppi, mi
farebbero paura, mi accontenterei di molto meno” che, nella loro evidente
demenzialità, hanno tuttavia l’effetto di far sembrare la vincita un po’
più probabile, una prospettiva che dipenda, più che dall’arbitrio della
classica Dea bendata, anche da una certa tua disposizione di spirito. A
chi si accontenta, si sa, può anche capitare di godere, ogni tanto.
E
poi, insomma, ogni tanto qualcuno la combinazione vincente l’azzecca.
Quei sei numeri che mi sono venuti in mente ieri, le date di nascita
dei miei bambini, quella del giorno in cui la morosa mi ha detto di sì,
la targa della mia prima automobile, tutte cifre che per me significano
comunque qualcosa, come possono non avere un significato anche per la Fortuna?
Ieri non sono uscite, certo, ma domani, chissà, forse sì. E
milleseicento lire, via, sono una vera miseria, una cifra della cui mancanza
non si soffre, di cui, anzi, nessuno si accorge nemmeno. Per cui,
tanto vale.
E
così, milleseicento lire dopo milleseicento lire, non ci rendiamo conto
di come, nell’accanirci a sfidare un banco che gode di più vantaggi di
quanto il più incallito baro del vecchio West abbia mai sognato di attribuirsi,
siamo inesorabilmente destinati a soccombere , e come le milleseicento
lirette che di volta in volta ci rimettiamo acquistano tutto un altro significato
se le si riferisce alla massa di denaro in cui confluiscono, una quantità
immane di soldi di cui lo Stato alleggerisce bisettimanalmente le tasche
dei cittadini. I quali, d’altronde, se solo si azzardano a entrare
nel giro infernale dei sistemi e delle carature possono, senza nemmeno
accorgersene, rimetterci anche delle somme tutt’altro che indifferenti.
D’altro
canto, giocare è un’attività piacevole, non si può negare che una moderata
quantità d azzardo conferisca un certo gradevole brio all’esistenza e
non si capisce perché si debba permettere all’avidità dello Stato di negarci
questa ingenua gratificazione. Per questo mi permetto di suggerirvi
un metodo per giocare tutte le volte che lo desiderate, correndo sì, qualche
rischio, perché se no che razza di gioco sarebbe, ma senza locupletare
inutilmente le finanze pubbliche a scapito delle vostre private.
Dunque,
scegliete sei numeri da uno a novanta. Sceglieteli con il criterio
che più vi aggrada, aprendo a caso un volume, calcolando i ritardi dell’estrazione
sulle ruote principali, ricavandoli dalla data di nascita vi è caro, vaticinandolo
dal volo delle rondini in primavera o dal venir meno delle foglie in autunno:
fate pure come volete. Una volta sceltili, prendetene accuratamente
nota: se volete, riportateli pure su una delle schedine in libera distribuzione
presso i punti di gioco (in questo caso potrete strafare e, visto che ogni
schedina è provvista di due colonne, sceglierne addirittura dodici). Dopo
di che, guardatevi bene dall’andarli a giocare: abbiamo già visto che
difficilmente potrebbe venirvene qualcosa di buono. Riponete l’appunto
o la schedina in un posto sicuro e aspettate l’estrazione del mercoledì
o del sabato successivo. Se, come è più che probabile, non saranno
usciti, avrete la soddisfazione di ritrovarvi in tasca milleseicento lire
in più, che è ovviamente lo stesso che averle vinte. E non dite che
così non si rischia niente: pensate a come vi sentireste se quella combinazione
fosse effettivamente uscita e capirete che un rischio, un azzardo, lo avete
corso comunque. Vi siete solo permessi di invertire il gioco delle
probabilità a vostro favore: tanto lo sanno tutti che invertendo l’ordine
dei fattori il prodotto non cambia.
15.11.’98