Come aiutarli

La caccia | Trasmessa il: 03/06/2011


    Dev'essere stato un bel problema, per il governo italiano, decidere come dare una mano ai nostri fratelli libici martoriati dalla guerra civile. Qualcosa, evidentemente, bisognava fare, vista la prossimità geografica e le responsabilità storiche che legano i nostri paesi, ma cosa? A un intervento militare, anche nella nota forma della “missione di pace”, non era il caso di pensare e non perché il ministro La Russa fosse irrevocabilmente contrario a questo genere di iniziative (se lo sogna di notte, probabilmente, di caracollare sul lungomare di Tripoli a cavallo in divisa da meharista brandendo la spada dell'Islam), ma perché sembra che gli indigeni siano contrari e poi un intervento va deciso dall'Onu, non tutti in consiglio di sicurezza sono d'accordo e, comunque, ormai, in quella sede è invalso il principio per cui dalle azioni nei paesi ex coloniali le ex madrepatrie sono pregate di astenersi, quindi sarà per un'altra volta, peccato. Gli insorti preferirebbero l'istituzione di una no flight zone o, meglio ancora, un bel bombardamento mirato che gli tolga dai piedi la Guida della Rivoluzione, ma, a parte il fatto che entrambe sarebbero azioni di guerra, un po' imbarazzanti da decidere per chi è tuttora legato alla Libia da un trattato di amicizia (che,in termini di diritto, dovrebbe vigere ancora, visto che nessuno l'ha denunciato e nessuno ha abolito, per ora, il governo di Tripoli), queste cose, si sa, non le decidiamo noi. Spetta, il farlo, agli americani, e l'Italia non può che accodarsi battendo i tacchi. Meglio, in definitiva, optare per il buon vecchio intervento umanitario, che funziona sempre e nessuno, né la sinistra né le procure, può protestare. E a tale conclusione, dopo quelli che supponiamo febbrili consulti tra la Farnesina, Palazzo Chigi, il Quirinale e gli stati maggiori, sembra si sia arrivati.
    Missione umanitaria, quindi. Ma umanitaria in che senso? Be', non sembra ci sia molto da scegliere: il vero disastro umanitario, da quelle parti, è rappresentato dai profughi, dalle centinaia di migliaia di persone, non tutte libiche, che cercano di sottrarsi alla guerra e alle relative rappresaglie. Il problema, evidentemente, è un problema di accoglienza. E l'Italia, paese vicino, separato da un breve braccio di mare, ma fornito di flotta, dovrebbe essere nelle condizioni ideali per contribuire alla sua soluzione. Accogliere degnamente un numero adeguato di profughi libici sarebbe anche un modo per far ammenda dei coloni italiani che gli abbiamo affibbiato ai tempi del bel suol d'amore.
    Sì, figurarsi. Tutto si poteva decidere, ma non questo. Non in un paese in cui la principale forza di governo – che non è, ormai lo si sa, il PDL – ha costruito le sue fortune sui respingimenti, nella ferma convinzione che l'unico immigrato buono sia l'immigrato assente. Che da quando sono cominciati i sommovimento in Nord Africa non fa che ripetere che sì, d'accordo, la democrazia è una bella cosa e cacciare i tiranni fa sempre piacere, ma stiamo soprattutto attenti alle orde islamiche che non vedono l'ora di riversarsi sulle prospere terre padane. Per cui, sviluppando creativamente lo slogan leghista dell'Aiutiamoli a casa loro, si è giunti al programma dell'Accogliamoli in casa d'altri. Sorgerà così al confine tra Libia e Tunisia quello che il “Corriere” di giovedì scorso definiva il “Villaggio Italia”, un centro di accoglienza per 50.000 profughi, ma forse potranno starcene un po' di più, da 70 a 100 mila, Approvato a tamburo battente, il progetto è già in fase di realizzazione.
    Ora, un nome come “Villaggio Italia” fa un po' pensare ai Villaggi Valtour o a quelli del Club Mediterranée, ma è difficile che la nuova struttura si realizzi su quel modello. Tanto per cominciare, sorgerà in un deserto, non su una spiaggia. Non sarà composta da bungalows, ma da tende della Croce Rossa, e al posto dei baristi e degli animatori ci sarà un team di cooperanti e di volontari. Tutti scrivono che “al momento non si prevede l'utilizzo di soldati, ma non è escluso che la scelta possa essere modificata”, il che vuol dire che i militari, in un secondo tempo, arriveranno senz'altro.
    Lo scopo di tutto ciò? Be', è chiarissimo. “Lo scopo dell'intervento italiano in Nord Africa” – cito sempre dal “Corriere” – è portare assistenza ai profughi e nello stesso tempo di bloccare le partenze di migliaia di migranti in fuga”. Si specifica inoltre che “il campo non potrà diventare una sistemazione definitiva per i migranti. Sarà un luogo di transito nell'attesa di tornare alle proprie terre di origine”.
    Insomma, inutile farla lunga: è piuttosto chiaro che il contributo dell'Italia alla soluzione della crisi nordafricana, consisterà in una edizione internazionale e militarizzata di quei Centri di Identificazione ed Espulsione che in patria hanno sostituito i CPT. O ancor meglio, tanto per chiamare le cose con il loro nome, nella creazione e gestione di un bel campo di concentramento, che evidentemente è proprio quello di cui quei poveracci hanno bisogno. Di campi di concentramento per libici, d'altronde il nostro paese ha già una certa esperienza. Ne ha creati a suo tempo sul territorio nazionale – alle Tremiti – e, durante la “rivolta” dei Senussi in Cirenaica, sul loro. Sono episodi largamente dimenticati, almeno da noi, ma fanno parte della storia e non li si può cancellare. E l'emergenza è l'emergenza e forse, partendo da quella impostazione, non si poteva fare davvero nient'altro.
    Ma, detto tra noi, che vergogna.
06.03.'11