Chi ringrazia chi

La caccia | Trasmessa il: 02/20/2005



Apro il libro che mi è appena arrivato per recensione – il giallo, piuttosto massiccio, di una scrittrice spagnola che non conosco – e trovo, in apertura, i “Ringraziamenti” dell’autrice.  Succede: se una volta questo tipo di paratesto era praticamente esclusiva dei saggi accademici, e si capisce, perché era il modo più spiccio con cui i cattedratici che firmavano quelle opere senza averle scritte potevano dar conto del lavoro dei vari assistenti che avevano provveduto materialmente alla bisogna, oggi lo si trova sempre più spesso nei volumi di narrativa.  Niente di male, in fondo: ci sono tanti modi per aiutare un romanziere, oltre a quello (che difficilmente verrà riconosciuto per iscritto) di suggerirgli la trama e renderne pubblicamente grazie è cosa buona e corretta.  Giusto, quindi, che chi ha ambientato un romanzo in tribunale ringrazi l’amico avvocato che gli ha spiegato i misteri della procedura o che chi si è fatto servire a puntino per tutti i mesi che gli ci sono voluti per arrivare alla fine si dichiari grato a chi premurosamente gli preparava i pasti, gli spazzolava i vestiti e gli spolverava il computer, e il tutto badando sempre a non fare rumore.
        La nostra scrittrice si attiene a questa lodevole tradizione.  Ringrazia  il tale che le ha dato una mano nelle traduzioni dal greco e dal latino (si tratterà, dunque, di un giallo colto) e il talaltro che ha verificato i dati storici.  Ma, in qualche modo, si capisce che non sono queste le cose che le interessano veramente.  A un certo punto lo stile si impenna. “E per ultima, senza che questa posizione in classifica supponga una minore importanza [voglio ringraziare] la mia agente … Antonia K., una persona in cui confido ciecamente”.  E poi “non potrei arrivare al termine di questa pagina senza menzionare la mia editor preferita, Carmen F.  Dicono che le relazioni più personali di uno scrittore sono con il suo agente e il suo editor.  Ebbene, è proprio così”.  E via di questo passo per un'altra decina di righe.
        Ci risiamo, penso.  Quella dei ringraziamenti all’editor e all’agente è una moda che, in un certo tipo di narrativa, infuria da un po’.  Prima si ringrazia l’editor, nei toni più enfatici che si possano immaginare, e subito dopo l’agente, in termini che lo stesso Oreste si sarebbe vergognato di usare per Pilade e Damone avrebbe considerato eccessivi per Pizia.  E ogni volta che mi imbatto in quelle espressioni mielose, che volete che vi dica, su di me cala una cappa del più nero  sconforto.  
        Vedete, l’editor, per chi non lo sapesse, è il funzionario (o il dirigente) della casa editrice che ha l’incarico di rivedere le bucce al manoscritto o – nel caso degli scrittori più importanti – di assisterli in fase di stesura.  Perché un autore dovrebbe dichiararsi grato a una figura del genere è cosa che, francamente, supera le mie facoltà di comprensione.  Un buon collaboratore, certo, fa comodo a tutti: oltre che a  mettere a posto gli apostrofi e le virgolette, che sono cose cui gli scrittori, anche bravi, in genere badano poco, può individuare in anticipo inesattezze e punti deboli, può suggerire dei miglioramenti, può impedirti di far scivolare nella tua prosa, come capita a tutti, una volta o l’altra, qualche immane cazzata.  Ma è fin troppo ovvio che nessuno di questi concetti –  inesattezze, punti deboli, miglioramenti, cazzate –  ha un valore assoluto: dipende tutto dai criteri e dai punti di vista da cui si parte.  Quello che per uno è uno scempio, per un altro può essere una trovata sublime.  Un editor strenuamente convinto della necessità del lieto fine non avrebbe mai fatto passare a Sofocle l’Edipo re e un assertore a ogni costo della plausibilità della trama avrebbe esitato parecchio a concedere il “visto si stampi” all’Orlando furioso.  E se questi esempi vi paiono eccessivi, ci sono sempre quelli – storicamente accreditati – di Vittorini che rifiutò Il gattopardo per la Mondadori, perché non era conforme al modello di romanzo che aveva in mente lui, o di Calvino che, per certi puntigli di ordine ideologico, sbarrò le porte della Einaudi alla Vita agra di Luciano Bianciardi (e prima ancora, se non mi confondo con Cesare Pavese, al Se questo è un uomo di Primo Levi).
D’accordo.  Quelli erano importanti scrittori in proprio che combattevano, in un certo senso, per le proprie idee.  Ma oggi la situazione è diversa.  Quando quel delicato incarico è affidato non a uno scrittore, ma a un onesto professionista dell’editoria, è difficile che i suoi obiettivi siano molto diversi da quello di assicurare la vendibilità del prodotto.  Che è un argomento serio, figuriamoci, perché un libro invendibile serve a poco, ma non è precisamente esaltante dal punto di vista della libertà creativa.  Vendibilità significa spesso adeguamento alle mode, rinuncia alla propria originalità, sottomissione agli idola della tribù e del mercato.  L’editor, in buona sostanza, è colui che, nel processo della scrittura, si forza di renderti quanto più possibile diverso da te stesso, che ti impone delle ragioni che, a prescindere dal loro fondamento, sono comunque diverse dalle tue.  E l’agente, il professionista che, per conto degli scrittori, si occupa degli aspetti commerciali del loro lavoro, non avrà una funziona molto diversa.  Lui non dipende dagli editori, ma tratta con loro ed è pagato a percentuale sui libri venduti: l’idea di un’opera dal sommo valore stilistico e ideologico e di scarso smercio in libreria non deve allettarlo particolarmente.
Insomma, nel migliore dei casi la necessità di trattare con figure professionali del genere dovrebbe essere considerata, dagli autori, un male necessario.  Nel peggiore è una insopportabile imposizione.  Personalmente, ho sempre ammirato, tra gli scrittori che conosco, quei pochi che, a costo di restare inediti per tot anni, non hanno mai permesso a nessuno di mettere mano alle loro cose (uno, potrà sembrarvi strano se lo conoscete solo superficialmente, è il buon Andrea G. Pinketts).  Ma gli altri, con maggiore o minore entusiasmo, si adattano.  Nella società globale del mercato, fanno la loro scelta e avranno, naturalmente, i loro buoni motivi.
Sì, ma non è obbligatorio mostrarsi entusiasti.  A me quei “ringraziamenti” danno l’impressione di una forma di piaggeria particolarmente sgradevole, come quella di chi tra libertà e profitto ha scelto decisamente il profitto e sa che a chi può decidere in merito è bene lisciare un po’ il pelo.  Fatti loro, naturalmente, e poi la presenza di quei testi può anche avere i suoi lati buoni.  Io, per esempio, che in certi periodi ricevo più libri di quanti riesca materialmente a leggere e devo per forza fare una selezione, quando ne trovo uno in apertura (o in chiusura) chiudo il volume e non lo riapro più.  Rischio di perdermi, certo, chissà quale capolavoro, ma criterio bisogna ben adottarlo e quello non mi sembra peggiore di tanti altri.
Chi deve acquistare il volume in libreria ha qualche problema in più.  Ma provate anche voi, quando il libro non è cellofanato e i commessi non sono troppo fiscali, a dare una occhiata preliminare.  Vi risparmierete, credetemi, parecchi bidoni.

20.02.’05