Chi difende che cosa

La caccia | Trasmessa il: 11/06/2005



Non credo, in tutta franchezza, che gli storici del futuro mostreranno un grande interesse per la classe dirigente dell’Italia berlusconiana, vista la desolante tendenza dei suoi componenti a coniugare la mancanza di spessore politico con una certa incapacità di suscitare una pur tenue simpatia umana.  Qualcuno, al massimo, potrà fare eccezione per Giuliano Ferrara, riconoscendone, se non altro, le straordinarie doti di funambolo della comunicazione e maestro dell’ideologia.  In fondo, soltanto a un personaggio par suo, capace di manipolare valori e concetti con una disinvoltura cui la maggior parte dei connazionali non si è ancora, nonostante tutto, adeguata, poteva riuscire l’impresa di far scendere in piazza migliaia di aderenti a entrambi gli schieramenti politici, compresi un congruo numero di dirigenti del sindacato e dei partiti della sinistra, in sostegno di una causa bizzarra quanto quella della difesa dello stato di Israele contro le minacce dell’Iran.

Ho detto “bizzarra”, ma potrei usare anche delle espressioni più forti.   È vero che le parole del presidente persiano Ahmandinejad sulla necessità di cancellare dalle carte geografiche quella che lui chiama “l’entità sionista” erano state particolarmente sgradevoli e che a nessuno poteva far piacere l’idea di confondersi con chi le aveva pronunciate, ma che senso avesse impegnarsi a “difendere” da una serie di minacce puramente verbali quella che resta la principale potenza militare della regione non era (e non è) facilissimo da capire.  Tutti sanno che Israele, a differenza dello smandrappatissimo Iran degli ayatollah, è dotato di uno degli eserciti più efficienti del pianeta e dispone, per di più, di tutta la tecnologia necessaria per assemblare un arsenale nucleare adeguato e, anzi, probabilmente l’ha già fatto.  Un simile stato, ne converrete, è perfettamente in grado di difendersi da sé e non sarà un caso se la fiaccolata romana non ha avuto, sulla stampa locale, moltissima eco.

Eppure a quella manifestazione sono andati in parecchi: quindicimila persone, sembra.  Di più: in molti vi hanno rinunciato, di malavoglia, solo perché la trovavano un po’ squilibrata, nel senso di un po’ troppo propensa a distinguere, nel grande macello medio orientale, i buoni dai cattivi, schierandosi per i diritti di una delle parti in causa e negando (o sottovalutando) quelli altrui.  Se gli organizzatori avessero speso un paio di parole anche per la causa palestinese, la partecipazione sarebbe stato veramente di massa.

Un po’ unilaterale, in effetti,  l’iniziativa lo era davvero, anche se non sono sicuro che sia questo il problema principale che ha posto.  In politica, si sa, bisogna schierarsi e quello di tener conto dei punti di vista di tutti è un tentativo lodevole, ma non obbligatorio.  Si può benissimo dissentire con chi vorrebbe ributtare a mare gli israeliani in blocco senza sentirsi costretti ad aggiungere meccanicamente, come in una giaculatoria, che anche ai palestinesi non si può continuare a negare uno stato.  Oltretutto, se vi interessa un parere personale, io per la soluzione dei due stati non mi sono mai entusiasmato e, anche se non posso più sperare di vederla realizzata nell’arco della mia vita, resto tenacemente attaccato alla vecchia utopia di chi crede che, un giorno, gli abitanti di quella terra disgraziata impareranno a vivere insieme da bravi fratelli, in nome (e scusate se è poco) della comune umanità.  Perché, in definitiva, non esiste un motivo per cui, prima o poi, quella loro terribile ostilità reciproca non possa venire archiviata allo stesso titolo, diciamo, dell’inimicizia tra inglesi e francesi, che si combatterono  per cent’anni, della rivalità franco tedesca, che causò due guerre mondiali, o dell’odio tra i cattolici e i protestanti,  che insanguinarono l’Europa con le loro guerre per un paio di secoli.  Se tutti costoro, oggi, vivono in pace, non si vede perché ciò non possa succedere sulle rive del Giordano.

Certo, oggi le cose, purtroppo, non stanno così e visto che in questo mondo tutto si tiene è giocoforza prendere una posizione in merito.  Ma bisogna stare attenti, dio santo, a quel che si dice.  Non si può sostenere, così come se nulla fosse, che Israele è un “faro della democrazia in Medio Oriente”, come se non si sapesse che dei vantaggi del sistema parlamentare e della pienezza dei diritti civili, laggiù, gode solo una parte, sia pur rilevante, della popolazione.  E non si può confondere il diritto (pur sacrosanto) di quello stato a non essere cancellato con la lotta all’antisemitismo, o la solidarietà con il popolo ebraico, come ha fatto giovedì sera dal palco e il giorno dopo sul suo giornale il celebre Magdi Allam.   Alle argomentazioni, chiamiamole così, di chi anche in fase organizzativa voleva considerare nemici a priori quanti non si sarebbero presentati davanti all’ambasciata  iraniana con la loro brava fiaccola in mano ha già risposto in modo perfettamente adeguato la Rossana Rossanda sul “Manifesto” di mercoledì, ma la questione, complessivamente, è molto più vasta.  Non bisogna mai stancarsi di ribadire, a onta di ogni ricatto ideologico, che una cosa e l’antisemitismo e un’altra il rifiuto della politica di Israele e che si può benissimo praticare il secondo senza cadere nel primo, perché i rapporti tra ebraismo e sionismo sono molto più complicati di quanto si voglia  far credere ed esiste comunque una ben precisa differenza tra gli stati, con le loro esigenze politiche e geopolitiche, e i popoli, le religioni, le civiltà.  Confondere i due piani ha sempre comportato guerre e massacri di ogni tipo e si continua a farlo solo perché  i potenti del mondo vi colgono una preziosa occasione per ammantare dei sacri ideali dell’identità etnica e culturale i propri particolari interessi, che sono, di solito, ben più concreti.

A questi inconvenienti, in realtà, si potrebbe cercare di porre rimedio con una certa dose di spirito laico, visto che appunto per sanare queste contraddizioni è stato inventato il laicismo, i cui ideali (con gli obblighi che ne derivano) finiscono sempre con coincidere con quelli della democrazia, ma non mi sembra proprio che allignasse molto spirito laico nei quindicimila portatori di fiaccole di giovedì sera.  D’altronde, più che per difendere Israele, molti di loro, con particolare riguardo ai dirigenti della sinistra, erano presenti soprattutto per difendere se stessi, la propria posizione nel sistema politico, la propria rispettabilità ideologica.    Che è, figuriamoci, un’aspirazione affatto lecita e rispettabile, ma quando si lascia che a pontificare in merito, definendone i canoni di giudizio, sia un Giuliano Ferrara (o chi per lui) rischia di ribaltarsi in una tipica operazione suicida.