Mi permetterete, spero, di non avere un’opinione particolare sulla figura
del nuovo papa. Certo, personalmente avrei preferito che al soglio
di Pietro non fosse stato eletto il responsabile dell’ex Santo Uffizio
e dal fatto che nella prima dichiarazione pubblica abbia voluto definirsi
“un umile operaio nella vigna del Signore” non ho tratto molta consolazione,
perché quella espressione, nonostante il tono tra il populista e il georgico,
trae dai precedenti biblici un significato abbastanza inquietante, visto
che nei sacri testi la funzione principale di chi in tale vigna lavora
è quella di estirparne gli sterpi, tanto è vero che Dante la usa nel suo
elogio di san Domenico (Paradiso XII, 86 ss.), per alludere all’Inquisizione
e alla crociata contro gli Albigesi, che resta uno dei più efferati massacri
noti alla storia. Anche la scelta del nome mi ha lasciato, in un
certo senso, perplesso. In fondo, a parte i riferimenti al santo
patrono di Europa, su cui non saprei dire, e quelli alla persona di papa
Della Chiesa, che definì, sì, la guerra una “inutile strage”, ma in linea
generale non diede grandissima prova di sé (anche se va detto che il compito
di risollevare la chiesa dopo i disastri del pontificato di Pio X era da
brividi), ci vuole una ben alta opinione di sé per definirsi con un nome
parlante così impegnativo e il compito del Vicario di Cristo, ne converrete,
dovrebbe essere quello di benedire gli altri e non se stesso. Ma
queste, in definitiva, sono fisime mie. I cardinali si scelgono il
principale in base alle considerazioni che loro considerano prioritarie
e non si preoccupano certo delle speranze e delle perplessità dei laici,
soprattutto di quelli sofistici come me. E visto che, almeno in teoria,
siamo in regime di separazione tra lo stato e la chiesa, ci si potrebbe
persino azzardare a dire, con una forzatura ottimistica, che sono affari
loro.
Affari nostri sono, invece, i comportamenti
della società secolare di fronte all’augusta figura. E ammetterete
che, da questo punto di vista, queste prime due settimane di regno di Benedetto
XVI non sono del tutto incoraggianti.
Non alludo tanto alle parole dei potenti, che
sono rimaste – mi sembra – nell’ambito della cortesia istituzionale,
né al giubilo ostentato delle folle e ai cori da stadio che hanno accompagnato
le prime uscite del pontefice, anche quando erano dettate da un’esigenza
banale come quella di organizzare il trasloco delle proprie masserizie
private. A questo siamo abituati, visto che, nella società dello
spettacolo e della omologazione, quella di confondersi nella massa resta,
paradossalmente, una delle poche possibilità lasciate a chi voglia rendersi
in qualche modo visibile e confondersi in una folla osannante è più facile
(e meno pericoloso) che espugnare la Bastiglia, un’attività cui le masse
si dedicano sempre meno e d’altronde quando ci provano poi gli si dà ampia
ragione di pentirsene. Penso piuttosto al lavoro che sulla figura
del nuovo papa stanno facendo gli operatori della informazione e gli strateghi
dei media, che sono poi quelli che alle manifestazioni di cui sopra danno
notorietà e risonanza mondiali.
Perché oggi, se si prescinde dalle metafore
canine impiegate da pochi colleghi spiritosi ma irriverenti, è in corso
una grande attività pubblicistica di rettifica dell’immagine papale. Il
cardinale Ratzinger era il cardinale Ratzinger e lo si poteva definire
senza danno un arcigno difensore dell’ortodossia, come a dire un discreto
nemico della modernità, come ben si addiceva d’altronde al suo incarico
e a chi glielo aveva conferito. Di Benedetto XVI, chissà perché,
non si può dire niente di simile. Ci stupirà tutti, assicurano. Mica
vero che sia sempre stato quel reazionario che dicono: al Concilio era
tra i più progressisti e non è colpa sua se, in seguito, gli studenti contestatori
lo hanno fatto incazzare a Tubinga. E poi è timido, accarezza i bambini,
suona il pianoforte, sorride sempre, alla Hitlerjugend lo hanno iscritto
di ufficio e non poteva farci niente, poveretto, vedrete che novità ha
in serbo, sui rapporti interreligiosi e sull’ammissione dei divorziati
ai sacramenti ha idee straordinarie, è modesto, lo ha detto lui che a farsi
eleggere non ci pensava neppure e, insomma, che cosa si può volere di più?
Ora, su quanto riserba il futuro, notoriamente,
non si può mai scommettere, ma è abbastanza ovvio che, a parte le notazioni
sulla Hitlerjugend, in sé ineccepibili, e quelle sulla timidezza, che non
contano molto perché la storia conosce parecchi casi di timidi che, per
reazione, ne hanno fatto di ogni, si tratta di considerazioni abbastanza
infondate. Sono tutte illazioni tratte su elementi deboli, un misto
di speranze personali, elementi di colore e petizioni di principio. Aria
fritta, in sostanza. Belle parole che non tengono conto né delle
tendenze dimostrate dall’uomo (che è stato prefetto della sua Congregazione
dal 1981 e ha avuto, quindi, quasi un quarto di secolo per far conoscere
le sue idee) né dei motivi che, in tutta evidenza, ne hanno determinato
l’elezione. Ed è strano, perché se la chiesa, a modo suo, ha avuto
del coraggio e in una situazione difficile (perché, Wojtyla o non Wojtyla,
la situazione del divino nel mondo moderno è obiettivamente difficile)
ha deciso di affidarsi a una figura ben caratterizzata, affidandole l’ovvio
mandato di tirare avanti senza compromessi sulla sua strada, la maggior
parte dei laici di questa caratterizzazione sembra non volerne proprio
sapere. Meglio, molto meglio, attaccarsi a ogni costo alla figura
del papa buono, del conciliatore, di quello che farà contenti tutti, che
annullerà nel suo abbraccio ogni futile contrapposizione tra progressisti
e conservatori, che curerà le relazioni pubbliche e darà agio ai
bravi giornalisti di scrivere tanti begli articoli e di pubblicare tanti
bei libri sulla sua umanità e il suo zelo paterno. In undici giorni,
di fatto, di agiografie del genere in edicola ne sono già apparse quattro
o cinque.
Tutto questo, vi dicevo, non fa presagire niente
di buono. Non tanto per la chiesa, che con i tipi come lui se l’è
sempre cavata benissimo, quanto per un mondo laico che non perde occasione
per dimostrarsi perennemente incerto sui propri valori, nonché pericolosamente
incline a dimenticare che gli sterpi estirpati dagli umili lavoranti nella
vigna del Signore in genere finiscono in un allegro falò. E speriamo
che questa volta sia solo metaforico.
01.05.’05