“Se voi foste il giudice” era, anni fa, il titolo di una rubrica della
“Settimana enigmistica”. Vi si esponevano in forma di breve racconto
certi bizzarri problemi di convivenze difficili, supposte soperchierie
e incidenti controversi e si invitava il lettore a pronunciarsi in merito,
calandosi, per una volta, nei panni del magistrato. Nulla che richiedesse
una preparazione giuridica formale, beninteso, perché erano tutte questioni
dirimibili solo con un po’ di buon senso, ma sappiamo tutti che
il buon senso, nei tribunali, non è la merce che più di ogni altra alligna.
Così, se voi foste il giudice (o, più precisamente,
il PM) che ha fatto condannare per omicidio un cittadino incensurato, risultato
poi innocente dopo quindici anni di galera, non dovreste avere difficoltà
a dare delle risposte sensate a eventuali intervistatori desiderosi di
un vostro commento in merito. Direste, probabilmente, che vi dispiace
molto, ma tutti possono sbagliare, le cose, quella volta, si erano messe
proprio in modo di trarvi in inganno e quello che conta, dopo tutto, è
che l’ingiustizia sia stata sia pur tardivamente corretta. Auspichereste
che il disgraziato ottenga, se non altro, un adeguato risarcimento e forse
fareste notare come questi deplorevoli episodi debbano richiamarci tutti
al dovere di anteporre a ogni altra istanza giuridica il rispetto assoluto
delle garanzie che legge e costituzione stabiliscono a difesa del cittadino
imputato. È la sua figura, e non altre, che in qualsiasi grado di
giudizio deve essere tutelata.
Ho detto “voi”. Perché, nel concreto,
può capitare di imbattersi in tutt’altri punti di vista. Per esempio,
si può leggere (sul “Corriere” di martedì scorso) l’intervista a un
pubblico ministero che è stato coinvolto in un episodio del genere, nel
senso che l’imputato che in primo grado aveva fatto condannare a ventun
anni è stato riconosciuto innocente dopo averne scontato appunto quindici
(una storia complicata, perché la condanna, annullata due volte in cassazione,
era stata confermata con una terza delibera della suprema corte, che tuttavia,
in seguito, aveva accolto una istanza di revisione, dopo la quale la corte
d’appello competente lo ha assolto per non aver commesso il fatto) e i
commenti ivi espressi sono piuttosto diversi. L’imputato si era
sempre dichiarato innocente, ma “lo fanno tutti” e come tutti gli altri
lui è stato trattato. Si capisce che adesso un po’ si lamenti, ma “deve
stare attento a ciò che dice”, perché “per questa storia che magistrati
e poliziotti abbiano ordito un complotto contro di lui è stato già condannato
per calunnie”. È vero che i testimoni a carico hanno ritrattato
(anzi, li hanno condannati per falsa testimonianza), ma questo “riguarda
le fasi successive, non il primo grado”, quando “a sostegno di quella
imputazione non mancava nulla” ed “è stato fatto un processo come si
deve”. La prima prova del guanto di paraffina – quella che serve
a capire se uno abbia sparato o meno – era risultata incerta, ma “la
seconda, una decina di mesi dopo, risultò positiva” e l’esame è stato
condotto da persona assai competente. I difensori sostengono che
il processo, quanto a prove, faceva acqua da tutte le parti, ma “gli avvocati
prendono i loro bravi compensi, mentre il pm non va a caccia di taglie”
e “il suo interesse a portare a giudizio un innocente è zero.” Ci
furono, è vero, due pentiti che scagionarono l’imputato e il magistrato,
in effetti, li sentì, ma non toccava a lui riaprire le indagini, per cui
fece il suo dovere trasmettendo “gli atti ai giudici competenti”. E
quando il giornalista, per concludere, gli chiede se non è contento, dopotutto,
che quel poveraccio se la sia cavata, l’intervistato non se la sente ancora
di dire di sì. L’assoluzione non è definitiva, il Procuratore Generale
della Corte d’Appello potrebbe ancora impugnare la sentenza ed è meglio
non sbilanciarsi.
Niente di scandaloso, naturalmente.
Chiunque è libero di difendere il proprio agire professionale e di
chiamare altri a condividere (o assumersi) le responsabilità del caso.
Lo avreste fatto, probabilmente, anche voi. Ma non vi sembra,
per dirla così, alla buona, che quella intervista – al di là, naturalmente,
delle intenzioni – sarebbe un ottimo argomento a convalida delle noti
tesi berlusconiane sulle peculiarità della magistratura? Che vi
si respiri un’aria, come dire, di astrattezza giuridica, per cui tutte
le cautele sono da una parte sola e, mentre sull’innocenza di un cittadino
ormai assolto è meglio non pronunciarsi, sulla ineccepibilità del processo
che l’ha condannato non si nutre il minimo dubbio?
I PM, si sa, fanno il loro mestiere e non è loro compito difendere in primis
il presupposto della innocenza presunta fino alla condanna definitiva,
ma il problema, in fondo, sta tutto qui. Lasciamo pure perdere quello
specifico caso, su cui, a parte l’articolo che vi ho citato, non ho dati
certi, ma è difficile sfuggire all’impressione che, su un piano più generale,
quel principio non sia esattamente la norma più popolare della Costituzione.
Lo si è invocato, negli anni scorsi, quasi solo quando lo si poteva
applicare a questo o quel pezzo grosso nei guai, agli uomini del regime
e ai sodali del capo, e le reazioni, di solito, sono state più di fastidio
che no. L’opinione pubblica vuole condanne esemplari e non sono
certo mancate le voci che dall’interno della magistratura chiedevano norme
che facilitassero l’opera. Di un autorevole candidato al Ministero
di Grazia e Giustizia si è detto, in questi giorni, che ne sconsigliava
la nomina il fatto che fosse troppo garantista. E cosa altro dovrebbe
essere, santiddio, un avvocato, un giudice o un ministro in un paese moderno?
Sempre che si possa considerare tale, naturalmente, il paese in cui
la difesa delle garanzie del singolo imputato è lasciata, colpevolmente,
nelle mani di una destra che se ne serve solo quando le fa comodo e in
cui l’ipotesi che un poveraccio si sia fatto quindici anni di galera a
gratis è vista con tanta giuridica imperturbabilità.
30.04.’06