Calma compagni

La caccia | Trasmessa il: 02/13/2011


    Leggo su un numero di “Repubblica” di qualche giorno fa, che in Russia è stato definitivamente abrogato il termine “compagno”, tovarish in lingua locale. Era, ci assicura l'autore del pezzo, “la parola più pronunciata per quasi 80 anni nel paese più grande del mondo”. Così aveva deciso il compagno Lenin subito dopo la rivoluzione e “così si fece indistintamente fino al crollo dell'Urss, nonostante le riforme del compagno Gorbaciov”. Tutti, a quanto sembra, erano tovarish: “dal segretario del partito al ragazzo che spala la neve sui marciapiedi, il compagno recluta e il compagno generale, compagni studenti agli ordini del compagno professore,” eccetera. Poi “con la fine del comunismo la parola era scomparsa dal linguaggio ufficiale ma, per uno di quei meccanismi psicologici difficili da spiegare era pur sempre rimasta nell'uso comune … Rimaneva il modo più abituale per rivolgersi agli agenti e ai funzionari di polizia. Adesso, per legge, sparirà anche da questa piccola nicchia. La riforma della polizia, varata dalla Duma, prevede infatti esplicitamente che gli agenti vengano chiamati come tutti gli altri lavoratori gospodin, signore”. La cosa, sembra, sta suscitando furiose polemiche, sia tra i superstiti comunisti (qualcuno ce n'è ancora), sia tra “i molti che ritengono il termine signore troppo rispettoso e sottomesso per usarlo con un poliziotto.” L'articolo spiega poi che anche la riforma in questione prevede un'innovazione terminologica, che porterà quell'organizzazione a chiamarsi da Milicija, Policija come altrove, riserva un po' di compatimento a quanti, in passato, credevano che bastasse dire “compagno dottore”, “compagno avvocato” o addirittura “compagno Stalin” per riscattarsi da una secolare subordinazione e conclude, per dimostrare che ogni tanto si esagera, con una citazione a pera di Majakovskij, che sembra abbia scritto una volta “Calma compagni, lasciamo parlare il compagno mitragliatore”.
    Sarà. Tutto questo – a prescindere dal fatto che la citazione di Majakovskij, un autore che amo molto e credevo di conoscere abbastanza bene, non l'avevo davvero trovata mai – mi fa pensare soprattutto che l'autore del pezzo, per ottimo corrispondente da Mosca che possa essere, di linguistica non sappia un gran che. Chi bazzica la materia, in genere, non ignora che è difficile che una parola si diffonda per ordine di un governo e su imposizione di un altro governo scompaia. Sa che la lingua – qualsiasi lingua – è per sua natura testardamente anarchica, nel senso, perlomeno, che non accetta altre leggi se non le proprie, e che le innovazioni che nella sua incessante deriva produce (nuovi termini, nuovi costrutti, nuovi fonemi e chi più ne ha più ne metta) sopravvivono e si stabilizzano solo se vengono accettate dalla maggioranza della comunità dei parlanti. Il che avviene, naturalmente, quando di un nuovo termine, di un nuovo costrutto o di qualcosa del genere i parlanti sentono più o meno consapevolmente il bisogno. Il termine “compagno” non si è diffuso in Russia e dintorni perché lo ha ordinato Lenin e non sparirà dall'uso corrente perché Putin lo vuole. Se quella vecchia espressione era passato, in Russia e altrove, da un uso ristretto all'interno delle organizzazioni del movimento operaio a un impiego assolutamente generale, vuol dire che di un termine del genere la gente, in qualche modo, sentiva il bisogno. E se gli attuali cittadini russi preferiscono che i membri delle forze di polizia siano “compagni” e non “signori”, avranno i loro motivi.
    Quale fosse, poi, la funzione del termine, non è nemmeno cosa difficile da divinare. Basta riflettere proprio sugli esempi che vengono riportati, con una certa sfumatura di derisione, nell'articolo di cui ci stiamo occupando: “il compagno recluta e il compagno generale”, “i compagni studenti agli ordini del compagno professore” e così via. È abbastanza evidente che con quelle formule si vuole (si voleva?) essenzialmente tracciare una distinzione tra la funzione sociale e chi la esercita. Le funzioni, in una società complessa, sono di necessità distinte e stratificate, con i generali che comandano e i soldati che obbediscono, i professori che insegnano e gli studenti che imparano, quello che spala la neve e chi ha l'ufficio nel palazzo davanti al quale la neve viene spalata. Il fenomeno è comunemente noto come “divisione sociale del lavoro” e anche i bolscevichi avevano preso atto del fatto che non caratterizza soltanto le società capitaliste. Ma se ritengo che tutti coloro che alle varie funzioni adempiono e incombono siano comunque funzionali allo stesso progetto sociale, se decido di chiamarli tutti “compagni”, vuol dire che intendo salvaguardare in qualche modo la pari dignità di quanti a quel progetto comune partecipano. Perché non c'è santi: rispetto a quello di “signore”, che si userà anche per puri motivi di cortesia, ma ha comunque insita nel suo genoma una sfumatura di subordinazione, l'appellativo “compagno” sottolinea l'uguaglianza tra chi lo dà e chi lo riceve. Da questo punto di vista, se parlo di un “compagno spazzino,” posso far ridere, ma penso comunque che detto operatore ecologico gode o dovrebbe godere della stessa dignità del “compagno capo del governo”.
    Ipocrisia? Sì, forse un po', perché sono pochi coloro realmente disposti a riconoscere pari dignità a tutti i loro simili e poi la dignità, oltre che riconosciuta e affermata, va sostanziata in termini di livello di vita e posizione sociale. Ma nell'idea si può cogliere anche un briciolo di utopia, un minimo di speranza in quel mondo migliore in cui questo ideale potrà, un giorno, sembrare meno remoto. La rapidità della diffusione del termine “compagno” nei primi decenni del '900, al di là delle pratiche coartanti che senz'altro avrà messo in atto il potere, testimonia, se non altro, della presenza di un diffuso spirito rivoluzionario, di una dimensione ideologica egualitaria che, a dispetto di tutti gli sforzi, non si lascia negare neanche oggi. Nulla che possa venire apprezzato, naturalmente, da chi crede (o sostiene) che il comunismo è stata solo l'imposizione autoritaria di un gruppo di mestatori e di despoti. Ma i dati della linguistica ci garantiscono, se non altro, che i “compagni” che ci hanno creduto non erano poi così pochi.
13.02.'11


    Nota

    L'articolo in questione, La Russia saluta l'ultimo compagno, a firma Nicola Lombardozzi, è apparso su “Repubblica” del 3 febbraio u.s.