Cacciatore di

Racconti | Cacciatore di, omaggio ad Andrea Carlo Cappi, circolazione privata, 2001




Cacciatore di…


Quella mattina mi ero svegliato leggermente inquieto.  Non sono quello che si dice un sensitivo, ma avevo come l’impressione che stesse per accadere qualcosa di spiacevole .  O forse era solo perché la sera prima avevo avuto a che dire con Tiziana, che, in preda a un insolito attacco di gelosia, mi aveva accusato di passare troppo tempo con Vittoria Maggio.  Avevo cercato di spiegarle che i miei rapporti con quella promettente scrittrice erano di natura esclusivamente lavorativa, ma non mi aveva creduto e se n’era andata prima del previsto.  Subito prima di sbattere la porta, mi aveva comunicato, con un certo tono di sfida, che si era ricordata di avere un impegno importante con Alex Montecchi.

       Complicazioni, sempre complicazioni, sospirai.  Non ero preoccupato, naturalmente, perché sapevo di potermi fidare di Alex come di me stesso, ma non avevo certo bisogno di crisi domestiche.  Per un motivo o per l’altro, il lavoro si era accumulato più del solito, e mi servivano tutte le mie energie per riportarmi in pari.  Per quel giorno avevo in programma cinquanta cartelle di traduzione, due prefazioni, il testo di tre fascicoli da accludere ad altrettante videocassette, un capitolo per ciascuno dei due romanzi cui sto lavorando sotto pseudonimo, la correzione delle bozze dell’ultimo numero di “M” e, se ci fosse stato il tempo, cinque o sei pagine del grande romanzo che riuscirò, presto o tardi, a pubblicare a mio nome.  Come se non bastasse, mi ero mezzo impegnato a preparare per cena la paella secondo la ricetta originale di Raimondo Lullo.  Sospirai di nuovo.  Forse, per una volta, avrei potuto ripiegare su qualcosa di più semplice: il risotto alla milanese, per esempio.  Nel forno a microonde viene benissimo.

       Ancora in pigiama, bevvi un caffè, mi calcai il Borsalino in testa, innestai la segreteria telefonica con il tema di James Bond  e accesi il computer.  Per le due o tre ore successive, decisi, sarei stato morto al mondo.

       Ero stato troppo ottimista.  Il campanello della porta cominciò a squillare verso le dieci.   Non ci badai.  Tiziana aveva le chiavi e non aspettavo nessun altro.  Probabilmente era soltanto Pinketts che aveva sbagliato casa: gli succede, da un po’.  Verso le dieci e mezzo, tuttavia, il maledetto oggetto non aveva smesso di imperversare e, a malincuore, decisi di andare a vedere chi diavolo era tanto ansioso di entrare in casa mia.

       Se l‘avessi saputo prima, non l’avrei fatta aspettare di certo.   Inquadrata nell’uscio, con un dito implacabilmente appoggiato al pulsante, si stagliava una delle più splendide bionde su cui avessi mai posto gli occhi.  Sembrava uscita dalla versione a luci rosse di un classico del noir.

       “Ce ne hai messo di tempo ” esordì con una voce profonda, di gola, che avrebbe fatto impazzire Mike Hammer.

       “Ero sotto la doccia” risposi.

       “Allora hanno inventato un nuovo modello di cuffia” commentò, indicando il mio Borsalino.   Staccò il dito dal campanello, mi girò attorno con disinvoltura ed entrò nell’appartamento.  “Ho un lavoro per te, cacciatore” mi disse.

       Ci mancava altro.  “Non faccio più il cacciatore” risposi con decisione.  “Sono uno dei più qualificati operatori culturali nel campo della narrativa di genere.  Lo ha detto Carlo Oliva in una recensione a Radio Popolare.  E oggi ho molto da fare.  Devo tradurre cinquanta pa…”

       “Oh, quante storie” ribatté lei, sfilandosi l’impermeabile.  Sotto portava un miniabito che le sembrava dipinto addosso.  “Non credere di ingannarmi così facilmente, cacciatore.  Ho letto tutti i tuoi libri.  E il gusto della caccia non ce lo si toglie tanto facilmente.  Comunque, se hai bisogno di un incentivo…”

       Portò le mani al primo bottone, proprio sotto la scollatura.

       “Sono anche fidanzato” specificai con fermezza.

       “Anch’io.  Cosa fai con quel pigiama ancora addosso?”

       Gettai uno sguardo al computer.   Sembrava guardarmi con aria di rimprovero.

       “Tieni pure il cappello.  Mi piace” sussurrò lei.


Tre ore dopo mi dirigevo verso l’ala della Stazione Centrale dove si trovano le cassette portabagagli.  Avevo il Borsalino ammaccato e mi sentivo un po’ stanco, ma, tutto sommato, ero di ottimo umore.  La mia nuova amica mi aveva accompagnato in auto, mi aveva messo in mano una chiave e mi aveva spedito a ritirare una valigetta.  Conteneva, mi aveva detto, tutte le istruzioni di cui avrei avuto bisogno.  Lei non poteva accompagnarmi perché non c’era da posteggiare.

       Notai che l’ambiente non era dei più tranquillizzanti.  Da un po’ di tempo attorno alla stazione girano delle gran brutte facce.  Avevo frequentato parecchi extracomunitari, ai miei tempi, ma a confronto di quelli che mi sbirciavano in quel momento, Nabil e i suoi amici erano degli autentici angioletti.  D’altronde è da un pezzo che non li si vede più in giro per strada: Nabil, da quando ha costituito la sua cooperativa di fitocosmesi naturale, è un uomo di affari molto impegnato.

       Ero quasi arrivato alle cassette quando mi si parò davanti un individuo particolarmente inquietante.

       “Dove credi di andare, bamboccio?” mi chiese in tono minaccioso.

       Non mi offesi per il termine.  Era evidente che a un tipo delle sue dimensioni gli altri dovessero sembrare tutti dei bambocci.  Sembrava il fratello maggiore brutto di Sergio Altieri e il lampo che gli brillava negli occhi era di autentico furore omicida.

       “Buongiorno, signore” lo salutai cortesemente.  “Posso esserle utile?”

       “La chiave” rispose conciso.  “Dammi la chiave della cassetta e, forse, per questa volta non ti ammazzo.”

       Figuriamoci.  Mi misi una mano nella tasca destra, estrassi la chiave e gliela passai con la massima sollecitudine.  Poi, mentre lui, bofonchiando oscure minacce, si dirigeva verso la fila delle cassette, girai i talloni e mi affrettai nella direzione dalla quale provenivo.

       Ero quasi in vista della spyder della ragazza, quando sentii alle mie spalle un urlo di rabbia.  Me lo aspettavo: non avevo certo sperato che il gigante si accontentasse della chiave dell’antifurto dell’automobile di Tiziana.  Pensai che il tipo, con ogni probabilità,  era più veloce di me, ma forse difettava in agilità.  Mi misi a correre in direzione di un gruppetto di individui d’incerta origine etnica che stavano trafficando in un angolo e che avevano tutta l’aria di non desiderare intrusioni.  Aspettai di essere praticamente sul punto di finirgli addosso, poi cambiai bruscamente di direzione, riuscendo a evitarli.  Lui, invece, no: piombò come una valanga proprio in mezzo al gruppo, facendo volare tutt’attorno banconote e bustine e causando, nel complesso, parecchio scompiglio.  Immediatamente gli saltarono addosso in tre.  Peggio per lui: se l’era voluta.

       La bionda sporse la testa dal finestrino.  “La valigetta?” chiese, con un certo tono impaziente.

       “La cassetta era vuota” mentii.

       “Vuota?  Sei sicuro che fosse quella giusta?”

       “Certamente.”  Le mostrai la chiave che avevo tenuto nella tasca sinistra.  “Apre solo quella.”

       “Maledizione!” esclamò con rabbia.  “Mi hanno fregata.  In qualche modo sono riusciti ad arrivarci prima di me.  Ma non è detta l’ultima parola.”

       Pigiò sull’acceleratore e partì sgommando, lasciandomi in mezzo alla strada.

       Non me la presi.  Era fin troppo ovvio che, nei suoi piani, il mio compito si sarebbe esaurito con il recupero del contenuto della cassetta.  E per quello, in fondo, ero già stato pagato.  Tornai lentamente sui miei passi, rivolsi un sorriso di approvazione ai volontari della Croce Rossa che stavano caricando sull’ambulanza la barella con il gigante, aprii la cassetta con la chiave, presi la valigetta e mi diressi verso la fermata della metropolitana.


A casa, deposi il cacciavite con cui avevo appena forzato la serratura e guardai compiaciuto le mazzette di banconote da cento dollari.  Chissà in quale losco affare erano coinvolti la ragazza e il bestione.  Personalmente, non mi interessava affatto saperlo.  Quei soldi adesso erano miei e avevo tutte le intenzioni di spenderli.

       Ce n’era abbastanza per vivere almeno un anno a Maiorca, calcolai.  Un anno senza impegni, senza traduzioni da fare, senza lavoro urgente da consegnare, senza serate insulse al Boulevard Café.  Un anno che avrei potuto dedicare alla stesura del grande romanzo italiano, quello con cui mi sarei definitivamente affermato come il vero maestro del giallo nazionale.

       E, per di più, avrei potuto prendermi una soddisfazione che sognavo da anni: quella di spiegare a tutti i miei attuali datori di lavoro che cosa pensavo davvero di loro.  Erano appena le quattro e il tempo non mi mancava.  Presi la lista che tenevo sempre pronta nel caso che e impugnai il telefono.

       Tre ore dopo, deposi la cornetta.  Ripensavo con compiacimento a quanto avevo detto e agli sbalorditi balbettii con cui, di solito, mi era stato risposto.  Ero un uomo libero, finalmente.

       Il rumore della porta che si apriva e le voci di Tiziana e Alex Montecchi in anticamera mi fecero ricordare che non avevo preparato la paella.  E, francamente, non avevo neanche voglia di cucinare qualcosa d’altro.  Poco male: li avrei invitati al Singapore.  Potevo permettermelo, ormai.

       Alex si avvicinò alla scrivania e diede un’occhiata alla valigetta.  Non ci sono segreti, tra noi.  Strabuzzò gli occhi, inghiottì a vuoto, poi prese una banconota e la guardò controluce.

       “Hai deciso di dedicarti al crimine su larga scala?” mi chiese.  “Sta attento che l’Interpol con i falsari non scherza.”

       Mi sentii percorrere da un brivido di inquietudine.  “Con i falsari?” gli chiesi a mia volta.
       “Sì, certo.  Non dirmi che non ti sei accorto che questi soldi sono fasulli.  Hanno tutti lo stesso numero di serie.”

       Presi la prima mazzetta che mi capitò sottomano e la sfogliai nervosamente.  Era vero e me ne sarei accorto anch’io se gli eventi della giornata non mi avessero, per così dire, distratto.

       Fissai Tiziana, che mi guardava sconcertata, e provai una fitta di senso di colpa.  Il computer era spento, ma mi guardava anche lui in un certo modo, come per dirmi “Te la sei voluta”.

       Sì, me l’ero proprio voluta.  E da quel momento, ahimè, sarei stato un…


CACCIATORE DI IMPIEGHI

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