Chiedo scusa in anticipo a tutti gli
ascoltatori, perché l’argomento è trito e ritrito ed è già stato ampiamente
dibattuto anche in questa sede. Per di più, ho una mezza idea che
il mio punto di vista in merito rischi di poter essere pericolosamente
confuso con quello di personaggi con i quali preferirei non avere nulla
a che fare. Ma, non so cosa dirvi, a me l’idea di pagare quattromila
lire l’anno per finanziare il sistema dei partiti, rimborsandone le spese
elettorali, proprio non va giù, e non solo perché, personalmente, non riesco
a vedere per quale dei partiti di quel sistema potrei eventualmente votare.
So che il problema è di natura più generale, non mi sfugge il fatto
che quattromila lire rappresentano, in definitiva, un esborso trascurabile,
non ignoro che con le tasse che pago finanzio delle realtà ancora più discutibili
di quella dei partiti (quella militare, per esempio), mi rendo conto del
fatto che sarebbe troppo comodo sottrarsi ai propri obblighi fiscali in
nome delle destinazioni di spesa, capisco i motivi che spingono tante brave
persone impegnate in politica (qualcuno ce n’è) a sperare che la legge
approvata giovedì dalla Camera diventi presto definitiva, perché le elezioni
europee sono alle porte e chi può permetterselo la sua campagna l’ha già
cominciata da un pezzo, ma proprio non riesco a convincermi. L’impressione
che, quando quella legge sarà approvata in via definitiva, le regole del
gioco politico subiranno una distorsione in più, che la nostra stessa libertà
ne sarà ulteriormente conculcata, non riesco proprio a togliermela dalla
mente.
Perché,
vedete, il problema non è solo quello dell’arroganza dimostrata da una
classe politica che ha deciso all’unanimità di calpestare allegramente
gli esiti del referendum del ’93 e di chiudere gli occhi di fronte al
rifiuto, altrettanto esplicito, manifestato dai cittadini verso la proposta
di finanziamento consensuale della legge del quattro del mille.
Quella di trovarsi sul collo una classe politica arrogante è una disgrazia
che può capitare a tutti ed è di solito temperata dalla speranza di potersene,
prima o poi, liberare. Ma è proprio su questa speranza, ahimè, che
agisce una legge del genere. Il finanziamento ai partiti, ancorché
largamente diffuso nei sistemi simili al nostro, ha precisamente l’effetto
di ridurre il tasso di mobilità politica. Istituzionalizza un certo
numero di soggetti a danno di altri. Fa di quelle libere associazioni
di cittadini che dovrebbero essere i partiti qualcosa che ricorda un po’
gli enti pubblici, degli organismi che lo Stato finanzia in nome delle
funzioni che gli riconosce e che naturalmente si impegneranno, esplicitamente
o implicitamente, a non esorbitare da quelle funzioni. Da che mondo
è mondo, finanziamento è sempre sinonimo di controllo. E se è riservato,
come non può che essere riservato, a un ben definito numero di soggetti,
significherà anche una conventio ad excludendum, la volontà di escludere
chiunque altro dal gioco. Le possibilità che chi non è finanziato
si conquisti sul campo i galloni di finanziabile contro chi è finanziato
lo è già sono talmente remote che non vale la pena di prenderle in considerazione.
Gli unici “nuovi” partiti che una legge del genere può prevedere
sono quelli nati per gemmazione, o scissione, o frammentazione dai vecchi.
D’altronde è difficile che una maggioranza nel cui seno allignano
i Comunisti Italiani o l’UDR (se esiste ancora l’UDR) possa avere una
visione creativa dell’evoluzione politica.
E poi, francamente, da chi afferma di
agire in nostra rappresentanza (e nega a chiunque altro di adempiere a
questa funzione) si dovrebbe chiedere, almeno, un minimo di coerenza.
Da quanto ho capito, dalla lettura dei giornali e da tutti i dibattiti
radiofonici e televisivi cui mi sono sottoposto, la necessità di farsi
finanziare dallo stato (necessità su cui, naturalmente, concordano anche
quanti, per bassa demagogia, hanno votato contro la legge) è motivata con
l’unico argomento del bisogno. Poche storie – ci hanno detto con
maggiore o minore tracotanza i sottoleader incaricati di questa sgradevole
bisogna – la politica costa, i cittadini di soldi volontariamente non
ne cacciano e se qualcuno ne cacciasse ci sarebbe da preoccuparsene: di
questi quattrini abbiamo bisogno. E, certo, l’argomento del bisogno
ha una cogenza che non intendo certo mettere in discussione.
Ma, santo Iddio, la liceità di
questo argomento i politici italiani la riconoscono soltanto a se stessi.
In nessun altro campo, mi sembra, si ritiene che il fatto che qualcuno
abbia bisogno di qualcosa comporti un’immediata erogazione. Non
in quella della sanità, certamente, dove di bisogni non c’è penuria, e
in cui il problema mi sembra sia quello di ridurre le spese, più che aumentarle,
o in quelli della previdenza, della scuola, della cultura, del lavoro
e via andare. L’ideologia neoliberista e neomercantile che grava
come una cappa di piombo sulla politica, il pensiero unico cui si rifanno
con encomiabile coerenza tutti i governi che si succedono impone che ciascuno
se la cavi da solo e se no tanto peggio per lui. Ciascuno, tranne
evidentemente i partiti.
E non venitemi a dire che i nostri nemici
di quattrini ne hanno e noi no e che quindi non possiamo permetterci di
essere troppo rigorosi. Lo sapete anche voi che questa pioggia di
miliardi, buona parte dei quali andranno anche ai nemici in questione,
non cambierà certamente i rapporti di forza. Loro saranno sempre
più ricchi e più potenti: per questo, d’altronde, sono i nostri nemici.
Ma noi, quando ci saremo spogliati in cambio di quei pochi
soldi del nostro rigore e delle nostre idee, con cosa pensiamo di batterli?
14.02.’99