Verrebbe una gran voglia, di fronte
alla notizia che i sindacati hanno deciso, per il prossimo 1° maggio, di
rinunciare alla consueta manifestazione romana per raccogliersi tutti in
preghiera attorno al Santo Padre, di sbrigarsela con una battuta. Di
far notare, per esempio, che i lavoratori questi sindacati così attenti
alle compatibilità generali del sistema e così poco solleciti dei problemi
specifici dei loro organizzati li hanno mandati a farsi benedire tante
di quelle volte che non si possono certo stupire se i loro leader cercano,
oggi, la più autorevole delle benedizioni. Verrebbe voglia, ma, naturalmente,
non si può. La notizia è così deprimente, per il livello di confusione
tra piani diversi e la disposizione alla piaggeria che rivela, da far passare
ogni tentazione di fare dello spirito. Il papa avrà i suoi motivi
per non volere, nelle vie della capitale, altre manifestazioni che quelle
dei pellegrini accorsi per il Giubileo, ma che non solo le autorità civili,
ma persino le dirigenze sindacali si dimentichino con tanta facilità che
nella città di Roma (e tra i lavoratori romani) può anche esserci qualche
anima persa che alla benedizione del papa non tiene più che tanto è veramente
un po’ troppo.
D’altro
canto, verrebbe pure da chiedersi, perché no? Da qualche anno a
Roma il 1° maggio lo si festeggiava soprattutto con un concerto. Una
bella cosa, eh, e laica, naturalmente, ma una cosa, comunque, che con il
significato di quella scadenza aveva già ben poco a che fare. Anzi,
a pensarci bene, forse il significato del 1° maggio era già andato perdendosi
da parecchio tempo. Quella celebrazione, che era stata voluta centodieci
anni fa per ricordare una strage ed esprimere, quindi, la volontà di continuare
a lottare nonostante la repressione, presupponeva, come minimo, la convinzione
che gli interessi dei lavoratori non coincidessero di necessità con quelli
dei detentori dei mezzi di produzione. E in effetti, per anni e anni,
il 1° maggio non fu una festa, ma una scadenza di lotta, e di quelle toste.
Ai lavoratori che si ostinavano a scendere in piazza con le loro
bandiere, i vari “comitati di affari della borghesia” (se qualcuno ricorda
ancora questa bella definizione marxiana del governo) risposero a lungo
con le baionette.
Poi, naturalmente, è cambiato tutto.
Nelle cosiddette e non rimpiante “democrazie popolari” il 1° maggio
era diventato il pretesto per una parata militare: roba da far rigirare
nella tomba le ossa dei martiri di Chicago. Nell’occidente democratico
e consumista era l’occasione di un bel ponte festivo, il primo week-end
della bella stagione, e se per combinazione in quei giorni cadeva anche
la Pasqua, tanto meglio. Nell’allegra Italia degli anni ’90, in
cui tutto si mescolava e tutto poteva essere spettacolo, anche perché c’era
sempre qualche struttura amichevole cui lo spettacolo poteva essere commissionato,
lo si festeggiava con un concerto. Un rito, in definitiva, come si
erano ridotte a rito le sfilate sui soliti percorsi e i comizi dei soliti
rompicoglioni sulle solite piazze. Rito per rito, in fondo, tanto
vale rivolgersi a chi di riti se ne intende davvero.
Ma certo c’è da chiedersi con un po’
d’apprensione che cosa si inventeranno la prossima volta.
05.12.’99