Su certe cose, tuttavia, Berlusconi
una sua coerenza ce l’ha e nessuno gliela può negare. Così, nell’ormai
celebre intervento televisivo di martedì sera, oltre a spiazzare i telespettatori,
la diplomazia internazionale, i suoi ministri e persino Bruno Vespa in
tema di ritiro delle truppe dall’Iraq (tanto, sapeva già che il giorno
dopo avrebbe ritrattato tutto), ha trovato il modo di ridire la sua sulla
aggressione di cui sono state vittime, a Baghdad, Giuliana Sgrena e Nicola
Calipari. E pur ribadendo che spetterà alla commissione mista della
cui istituzione si è tanto vantato fare chiarezza in materia, non ha rinunciato
a fornire, per intanto. una sua verità. “In Iraq” ci ha detto “c’è
un clima di paura, di preoccupazione da parte delle truppe americane …
Sono militari molto giovani… era una pattuglia che si è vista
arrivare addosso un’auto a velocità…” Insomma, “è partita una
offensiva di avviso con proiettili traccianti e penso che una di queste
raffiche sia stata sbagliata.” Dichiarazione testuale, almeno stando
a quanto riferito dal “Manifesto” del giorno dopo.
Ebbene,
non c’era, in questa “offensiva di avviso sbagliata”, oltre ai proiettili
traccianti e allo sfoggio compiaciuto del gergo tecnico militare, nulla
che chiunque non avrebbe potuto prevedere in anticipo. Era la versione
riveduta e corretta del vecchio “colpo di avvertimento”, quello con cui
infiniti funzionari, ai più vari livelli, hanno cercato di spiegare, negli
anni, infiniti “incidenti” dello stesso genere. È dai tempi di
Scelba, per lo meno, che, quando un manifestante resta sul terreno o uno
scippatore in fuga viene colpito alla nuca, qualche esponente governativo
deve presentarsi a spiegare che è stato un errore, che le forze dell’ordine,
pur in stato di grande tensione emotiva e pericolo personale, hanno sparato
per aria, o meglio, hanno “esploso verso l’alto” dei colpi che, chissà
come, invece di perdersi nel nulla hanno raggiunto il bersaglio con la
consueta, micidiale precisione. Tutti, a partire da loro, sapevano
che si trattava di una spiegazione di comodo, scontata e abbastanza
ipocrita, che tribunali e commissioni avrebbero finito, magari, per confermare
(l’ultimo caso che mi viene in mente è quello di piazza Limonta, a Genova,
ma devono essercene stati, dopo, degli altri), ma che non sarebbe riuscita
lo stesso a convincere i cittadini, che sanno benissimo che quando qualcuno
viene colpito, di solito, è perché qualcun altro ha voluto colpirlo.
Ma la hanno ripetuta lo stesso, sempre con la stessa aria compunta e impassibile,
perché tanto, a un certo livello, di quello che pensano davvero i cittadini
ci si preoccupa solo fino a un certo punto.
Se
il capo del governo si è piegato a questo malinconico rito, avrà avuto
i suoi motivi. Non aveva, come i suoi molti predecessori, bisogno
di difendere se stesso, perché della responsabilità di quel fatto nessuno
avrebbe potuto accusarlo. È probabile che intendesse soltanto confermare
la versione dei suoi amici americani: la perfetta corrispondenza delle
due versioni è stata subito rilevata persino dai giornalisti amici in studio.
Ma le sue motivazioni, in fondo, non ci interessano. È più
interessante notare come, nella convinzione di poter spacciare, sempre
e comunque, la verità che fa comodo a lui, l’uomo ritrovi l’unica forma
di coerenza cui, oggi come oggi, gli sia dato di attingere.
20.03.’05