Tra tutte le notizie tristi che ci giungono
ogni giorno dal Medio Oriente, non ce n’è una più triste – credo – di
quella relativa a certe affermazioni di Shimon Peres, come le ha riferite
in Italia il “manifesto” di giovedì scorso. L’eminente uomo politico
isrealiano, trovandosi in visita ufficiale in Turchia, avrebbe avuto modo
di dichiarare a un quotidiano locale in lingua inglese, il “Turkish Daily
News”, che gli israeliani respingono con decisione “i tentativi di creare
un’analogia tra l’Olocausto e le asserzioni armene (Armenian allegations)”,
nel senso che il massacro di un milione e mezzo di armeni a opera dei turchi,
negli anni precedenti la prima guerra mondiale “non è stato nulla di simile
all’Olocausto”, perché “quella del popolo armeno è stata una tragedia,
ma non un genocidio”. Le asserzioni armene in questione, come a
dire la pretesa da parte degli armeni di oggi di far uso dei termini “olocausto”
e “genocidio” anche in riferimento ai propri morti di allora vanno considerate
semplicemente “senza senso (meaningless).”
Ora,
è inutile dire che la distinzione è futile e che da Peres ci si può aspettare
di tutto. Il personaggio, come gli ascoltatori probabilmente sapranno,
pur essendo stato per anni un leader della sinistra laburista e pur avendo
conseguito, nel 1994, un premio Nobel per la pace, sia pure a mezzadria
con Rabin e Arafat, è ministro degli esteri nell’attuale governo Sharon,
la cui devozione alla causa della pace non sembra, a prima vista, così
assodata. Un giudizio sulla coerenza di questo percorso politico
non spetta, ovviamente, a noi, ma al popolo israeliano, che, in effetti,
sul conto di Peres è sempre stato piuttosto severo, negandogli più volte
l’investitura a premier e bocciandone, recentemente, la candidatura alla
presidenza della repubblica. Ma visto che l’individuo, comunque,
fa parte da una quarantina di anni del ceto di governo del suo paese, le
sue dichiarazioni meritano di essere prese in una certa considerazione,
specialmente quando investono, come in questo caso, delle questioni di
carattere generale.
Anche
lui, naturalmente, ha i suoi motivi. La Turchia e Israele – preziose
pedine, entrambe, della strategia americana nell’area medio orientale
– sono stretti alleati e il punto di vista di un alleato va sempre
tenuto in considerazione. Il governo turco, fedele assertore del
principio per cui basta sostenere che un problema non c’è per farlo sparire,
ha sempre negato l’esistenza di questioni nazionali nei suoi confini presenti
e passati: in particolare nega che ci sia una questione curda ora e che
ci sia stata una questione armena all’inizio del secolo scorso. I
curdi, oggi, non sono una nazionalità oppressa, ma semplicemente dei “turchi
delle montagne”, in rotta con il governo centrale per qualche loro oscuro
motivo e gli armeni, ieri, erano soltanto dei “sudditi turchi cristiani”
che combatterono contro la patria comune una sanguinosa guerra civile.
La pretesa è un po’ assurda, ma visto che i governi alleati, il
nostro compreso, ci stanno (e infatti gli esuli curdi in Europa sono considerati
soltanto degli immigrati turchi più o meno regolari) i turchi continuano
ad avanzarla e lo faranno finché gli interessi politici e militari degli
stati saranno considerati più importanti dei diritti degli individui.
Ma
sulla realtà di quel milione e mezzo di armeni massacrati non si discute
e non soltanto perché è scritta sui libri di storia. La loro morte
fu una tragedia, certo, ma non nel senso di un evento doloroso e inspiegabile:
fu, anzi, il frutto di una premeditata politica di snazionalizzazione cui
il governo dei Giovani Turchi, che, nell’illusione di “modernizzare”
il paese aveva fatto propri i principi europei della compattezza etnica,
ricorse sistematicamente a partire dal 1894. E fu un’operazione
talmente ben pianificata e condotta con tanta perizia che di armeni, nei
territori dell’ex impero ottomano, oggi praticamente non ce ne sono: quel
popolo, di fatti, sopravvisse soltanto nelle regioni annesse alla Persia
nel secolo XVII e passate dalla Persia all’impero russo nel 1828, quelle
che costituiscono oggi la Repubblica di Armenia.
Agli
armeni di America, che discendono in gran parte dagli esuli scampati a
quel massacro e in questi giorni strillavano come aquile contro le dichiarazioni
di Peres, il consolato israeliano di Los Angeles ha risposto, con un suo
comunicato, che il problema “dovrebbe essere discusso dagli storici e
non dai politici”. Probabilmente è vero. Ma è ben triste che
un politico come Peres, che parla a nome di un popolo che ha conosciuto
persecuzione e sterminio, neghi, per motivi politici, la solidarietà a
chi cerca, appunto, un riconoscimento di natura storica. E che lo
faccia, con implicita ipocrisia, in nome dei propri morti, perché dichiarare
che quelle stragi lontane rappresentano una tragedia, ma non un olocausto,
significa pretendere, stringi stringi, che l’unico, vero Olocausto, l’unico
genocidio che possa essere definito tale, sia stato quello che ha coinvolto
la nazione ebraica. È un pretesa, questa, che non tutti gli ebrei,
né tutti gli israeliani, per fortuna condividono, ma che caratterizza da
sempre l’ideologia dominante dello Stato di Israele. È come se l’unicità
di quella terribile esperienza vada asserita e difesa perché da essa discende
un’unicità, altrettanto terribile, del popolo che l’ha sofferta, che
in nome di essa si arroga il diritto di considerare le proprie ragioni
superiori a quelli degli altri, perché se io sono unico, anche nella sofferenza,
non sono certamente tenuto a confrontarmi con te. Il che, lo ammetterete,
è davvero molto triste.
Naturalmente, il discorso, a questo
punto, non si rivolge più né agli armeni né ai turchi. Quelle affermazioni
hanno un carattere squisitamente ideologico e l’ideologia è sempre il
frutto di una cattiva coscienza, ma ci sarà bene un motivo se il processo
di pace in quella regione è fermo da tanti anni.
C. Oliva, 22.04.’01