Asimmetrie

La caccia | Trasmessa il: 04/27/2002




Ricorderete anche voi, suppongo, quel passaggio del Candide di Voltaire, che, sì, d’accordo, vi ho già citato appena due settimane fa, ma è uno di quei benedetti libri che se uno appena lo prende in mano poi non riesce più a staccarsene finché non se l’è riletto da cima a fondo, spero che ricordiate, dunque, quel passaggio del capitolo III in cui, raccontando della grande battaglia tra il re dei Bulgari e quello degli Avari, l’autore osserva che “non poteva esserci niente di così bello, agile, splendente e ordinato come i due eserciti”, tanto è vero che, dopo i primi scambi di cannonate, “il fuoco della moschetteria provvide a eliminare dal migliore dei mondi nove o diecimila mascalzoni che ne ammorbavano la superficie”.   È un momento di alta ironia, che ben rivela di quanto umor nero sia intriso il modo di vedere le cose di quel grandissimo pensatore.   Ma, naturalmente, il problema dell’ironia, per quanto spinta, è che c’è sempre qualche imbecille che riesce, comunque, a prenderla sul serio e, in effetti, mi sono sempre immaginato il vecchio Voltaire che, lassù, nel paradiso dei sommi, scuote stizzoso la testa pensando che tutti i crimini e  le nefandezze di cui ha caricato, per deprecazione, le vicende dei suoi eroi non sono nulla di fronte a quanto, due secoli dopo il preteso trionfo dei lumi, gli uomini riescono ancora a mettere in scena.

       Così, sepolta in un paragrafo casuale in una di quelle corrispondenze dalla Palestina che, quanto a crimini e nefandezze non lasciano proprio nulla a desiderare, ho trovato la notizia delle direttive impartite una settimana fa ai giornalisti del dipartimento in lingua araba della radio statale israeliana, come ne riferisce il “Manifesto” di ieri citando il quotidiano “Haaretz”.  Secondo quelle disposizioni, dei palestinesi cui capita, in quella migliore delle democrazie possibili nel Medio Oriente, di lasciarci le penne, non bisognerà mai più scrivere che “sono stati uccisi”, ma, più semplicemente, che “sono morti”.  Applicando la stessa logica, “nei notiziari non sarà più sufficiente riferire che il portavoce militare ‘ha negato’ la versione di un determinato episodio’” com’è stata fornita dalla parte opposta, “ma dovrà essere enfatizzato che si tratta di una ‘bugia’ senza fondamento”; i giornalisti “non dovranno più riferire che un deputato … ha ‘respinto’ le affermazioni del premier, ma che ha sollevato delle ‘obiezioni’” e, soprattutto, “si dovrà usare la parola ‘uccisione’ al posto di ‘assassinio’ in riferimento alle ‘esecuzioni mirate’ da parte dell’esercito israeliano.”  E così via.

       Niente di nuovo in sostanza.  Sappiamo tutti che il linguaggio non è mai neutrale, anche se le varie lingue possono differire tra loro nelle sfumature di valore che affidano a questa o quella parola.  Per quanta fiducia uno possa nutrire sulla obiettività del vocabolario, le parole esprimono (e denunciano) sempre il punto di vista di chi le usa.  Alla distinzione tra “uccisione” e “assassinio”, che non saprei dirvi a che coppia semantica sia affidata in arabo e in ebraico, ma che so desolatamente presente in tutte le lingue di cui abbia notizia,  gli uomini hanno sempre affidato la pretesa di potersi, con qualche ragione, ammazzare gli uni con gli altri, o, meglio, di poter ammazzare gli altri negandogli, al tempo stesso, il diritto di fare altrettanto.  È un’asimmetria tipicamente autogiustificatoria e la sua sostanziale fatuità, così drammatica di fronte alla natura definitiva dell’atto cui si riferisce, non ha mai impedito a nessuno di costruirci sopra interi sistemi giuridici (o di spacciare per tale la propria volontà di dominio).

Non è necessario, comunque, che questi usi siano disciplinati, come sembra accada nello Stato di Israele, da un qualche ufficio competente.   Basta scorrere la nostra libera stampa per accorgersi che caratterizzano, da sempre, l’intero sistema informativo.  E non mi riferisco solo al fatto che capita sempre più spesso di leggere, o di sentire, anche da fonte non sospetta, che “sono stati assassinati” tot cittadini di Gerusalemme e che nelle successive rappresaglie “sono morti” tot altri abitanti dei Territori. Ricordate le corrispondenze dalla Jugoslavia?  O le cronache da Kabul?  E il guaio è che non sempre si tratta di una deliberata intenzione giustificatoria da parte di chi passa la notizia, ma solo della conseguenza del fatto che spesso i giornalisti lavorano, di necessità, su materiali altrui e a volte finiscono per comunicare, insieme alle informazioni, anche le valutazioni di chi gliele ha trasmesse.  Succede, più di rado che agli altri, ma qualche volta succede, anche a noi di “Radio popolare”.

       Lo sforzo che dobbiamo fare tutti, naturalmente, non è solo quello di evitare i pregiudizi impliciti in questo particolare tipo di asimmetrie.  È quello di riconoscere il loro fondamento, che è sempre un fatto di disuguaglianza nei rapporti civili.  Il che forse ci permetterebbe di leggere quella notizia del “Manifesto”, più che per quello che riferisce, per quanto rivela in controluce.  Se qualcuno, in Israele, ha sentito il bisogno di ribadire con burocratica goffaggine l’imperativo di giustificare sempre e comunque il governo, vuol dire, evidentemente, che c’è chi non lo fa.  Che qualcuno, nonostante tutto, si azzarda ancora a mettere in discussione un punto di vista che fonda la propria visione del mondo su un sistema generalizzato di asimmetrie e disuguaglianze.  E visto che quella di trovare la forza per ribaltare questo modo di pensare rappresenta, in ultima analisi, l’unica speranza di salvezza per quel paese travagliato, si tratterebbe, nel suo piccolo, di una delle poche buone notizie che ci arrivano da quelle parti.


28.04.’02