Alata cosa

La caccia | Trasmessa il: 05/27/2012


    Alata cosa

    Mi dicono che domenica scorsa, approfittando della mia assenza, l'Accame vi ha propinato, oltre alle sue riflessioni, una mia vecchia poesia. La cosa può avervi stupito, ma, spero, non adontato: al massimo può avervi indotto in una vaga sensazione di disagio, come quando si vede qualcuno fare una cosa vagamente ridicola e disdicevole e ce se ne dispiace per lui. Scoprire che un vecchio signore pedante cede ogni tanto al richiamo delle Muse, in effetti, può ingenerare qualche perplessità.
    Naturalmente non vi metterò in ulteriore imbarazzo chiedendovi se quei versi vi sono piaciuti: so da me che i giudizi forniti su richiesta dell'autore non sono mai del tutto sinceri e poi nel particolarissimo campo della poesia i criteri di cui si dispone per giudicare sono talmente vaghi da escludere quasi delle valutazioni attendibili. È difficile che, posto di fronte a dei versi e richiesto di valutarli in sé – prescindendo, cioè, dal loro messaggio ideologico, quello che di solito si definisce”il contenuto” – il critico non professionista vada oltre un “mi piace” o “non mi piace”. I più scafati, forse, si lasceranno fuggire un “interessante” e lì si fermeranno, nella speranza che nessuno sia tanto indiscreto da indagare sulle motivazioni del loro interesse.
    È strano, però. Se la poesia è un discorso in versi, articolato – cioè – in spezzoni retti da certe regole date e organizzati secondo un modello ripetibile, il giudizio iniziale dovrebbe riguardare, ovviamente, la capacità o l'incapacità dell'autore di comporli. In poesia si può dire praticamente di tutto, ma bisogna saperlo fare secondo una certa normativa. Nei quaranta secoli circa in cui si esaurisce la storia letteraria della umanità, i poeti sono sempre stati quelli capaci di contare le sillabe, di alternare le brevi e le lunghe, di far cadere l'accento in questa o quella posizione, di scegliere le rime... In realtà, decidere di comporre in poesia e non in prosa significa decidere di complicarsi notevolmente la vita. Il risultato comporta certi precisi vantaggi, o almeno li comportava una volta, secoli fa, quando permetteva di comporre, conservare e diffondere dei testi senza ricorrere a una tecnologia costosa e poco diffusa come quella della scrittura, ma richiede una perizia tecnica che non a tutti è concessa. Da quando poi la scrittura non è iù patrimonio di un ceto specializzato, ma è entrata nel patrimonio medio delle persone colte, la difficoltà di scrivere versi è restata come fine a se stessa e su di essa si sono a lungo misurate le capacità degli autori. Non tutti, nei secoli, sono stati concordi sull'aspetto puramente tecnico di questa capacità, alcuni, da Platone in giù, hanno preferito associarla a una sorta di dono divino, a una “ispirazione” soprannaturale, per cui, come si legge nello Ione, alata cosa è il poeta e sacra e quasi divina, ma questa affascinante complicazione non è necessaria. Si possono benissimo scrivere dei versi senza sentirsi in alcun modo né alati né divini. A me, vi assicuro, non è mai capitato. Il problema, come in tutte le attività umane, è quello di applicare delle competenze acquisite e sì, certo, colui che cui tale acquisizione, per un motivo o per l'altro, non è costata troppa fatica potrà parlarne come di un dono (o di una ispirazione), ma si tratterà comunque di una metafora.
    Oggi che la diffusione del verso libero ha confinato nel dimenticatoio i problemi e le difficoltà della versificazione, liberando gli aspiranti poeti dalla necessità di fare i conti con sillabe, accenti, rime e compagnia bella, il problema della competenza del poeta (e del giudizio che si può esprimere su di lui) si pone in tutt'altri termini. Lo schema in cui organizzare il discorso non ti è più fornito dalla tradizione, devi trovartelo tu e deve essere – non si scappa – uno schema “poetico”. Ma trovare il senso di questo aggettivo non è poi così facile, perché la storia della letteratura lo lega – appunto – a una competenza tecnica di cui non hai più bisogno, lasciandoti come unica alternativa quella di dichiararti divinamente ispirato, che è una pretesa di fronte alla quale molti, comprensibilmente, riluttano. Il risultato è che le regole te le fai tu e le applichi nella misura in cui trovi qualcuno che te le lascia applicare, senza sottoporre questa specie di patto a due a nessuna verifica superiore.
    Oggi, in realtà, è poesia qualsiasi cosa che l'autore decide di definire per tale. Non è più necessario adottare uno speciale linguaggio e non si è più legati a una particolare tematica: basta saper segnalare al lettore che il testo che gli si propone aspira alla dignità del brano poetico – il che, al limite, si può fare limitandosi ad andare a capo più spesso di quanto si usi fare con i brani di prosa – perché esso sia automaticamente investito di quel valore. Scrivere poesia, da impresa difficile e faticosa – perché ce ne volevano di sforzi per confezionare un sonetto appena passabile, per non dire di altre forme ancora più raffinate ed elusive – è diventata la cosa più facile del mondo. Ci si possono provare tutti e tutti, infatti, ci si provano, sin dalla prima adolescenza. Quanti, come me, continuano fino all'età matura, o addirittura fino ai limiti della vecchiaia, dimostrano una ostinazione della quale – in linea di massima – dovrebbero vergognarsi. Un poco, di fatto, me ne vergogno.
    Se, nonostante tutto, ogni tanto mi azzardo ancora in questa disdicevole pratica è perché credo che, nonostante tutto, a certe riflessioni cui non si addice la forma del saggio o quella della narrazione giovi comunque l'essere investite di quella definizione. È come se sperassi che alle mie parole resti in qualche modo attaccato un po' dell'icasticità e della dignità che la storia della letteratura alla poesia tradizionalmente riconosce. Mi rendo conto che è una bella pretesa e non priva di una sfumatura parassitaria, ma spero nella vostra comprensione. In fondo scrivere poesie è un'attività piuttosto innocua. Alata cosa è il poeta, soprattutto perché, di solito, non dà fastidio a nessuno.