Mi auguro per voi che non abbiate sperato
davvero che la Corte di Cassazione avrebbe fatto “giustizia” (con le
virgolette) sulla strage di piazza Fontana. Secondo me, se vi interessa
il mio – faziosissimo – punto di vista, non sarebbe stata fatta giustizia
nemmeno se gli imputati fossero stati condannati in blocco. Questo
ultimo troncone del processo era il frutto di indagini troppo tardive,
fondate su rivelazioni troppo poco attendibili perché ne potesse uscire
una qualche credibile verità giudiziaria. Una attribuzione definitiva
delle responsabilità ai neofascisti avrebbe contribuito, forse, ad avvalorare
un’interpretazione storico politica dei fatti, ma questo, per fortuna,
non è compito dei giudici, cui si chiede di decidere soltanto sulle responsabilità
personali e che non dovrebbero tener conto, in teoria, delle petizioni
di principio. Quel tipo di verità, se mai, la abbiamo scritta noi,
in questi anni di rifiuto delle versioni che ci venivano di volta in volta
proposte dall’alto e di essa, tutto sommato, dobbiamo saperci accontentare.
Quanto ai tribunali, possiamo ammettere che negli anni non sono mancati
i magistrati che hanno cercato di fare del loro meglio, ma l’istituzione
giudiziaria nel suo complesso condivide con il potere politico una non
piccola parte della responsabilità per come sono andate le cose. Se
l’è assunta fin dall’inizio con la incriminazione degli anarchici e poi
con gli spostamenti e i rinvii dei processi e la reiterata incapacità di
giungere a una conclusione definitiva e i cittadini non possono che tenerne
conto.
Non che sia facile. Nemmeno il
più scrupoloso dei cronisti, oggi, potrebbe ricostruire quell’estenuante
percorso a zigzag tra procure e tribunali. Del resto si è appreso,
proprio in questi giorni, che la stessa documentazione materiale di quegli
eventi, nel senso delle carte custodite in non ricordo più quale archivio,
è in stato di avanzata decomposizione. La suprema Corte, i cui interventi,
in passato, hanno negato credibilità alle varie ipotesi inquirenti, anche
questa volta non poteva far altro di quello che ha fatto. Non poteva,
ahimè, neanche esimersi dal condannare i parenti delle vittime a
pagare le spese di giudizio. Non è stata questa una beffa, come si
è scritto, né una caduta di stile, cui si possa rimediare con un intervento
di tipo caritativo: si è trattato, al contrario, dell’inevitabile conferma
dello stile di uno stato e di una classe dirigente che per i propri errori
non hanno mai pagato e non intendono certo cominciare a pagare.
D’altronde,
sarà ben lecito dubitare che abbia senso una sentenza – qualsiasi sentenza
– pronunciata a trentacinque anni dai fatti. Ci vuole un bello sforzo,
anche per noi che eravamo adulti già allora, per ricordare com’era l’Italia
ai tempi di piazza Fontana. Erano anni incasinati assai, ma pieni,
per così dire, di prospettive interessanti. Le speranze di una trasformazione
radicale della nostra società non erano, come d’uso, limitate a una minoranza
più o meno illuminata, ma costituivano il patrimonio di un movimento un
po’ incerto quanto a strumenti di interpretazione, ma dallo straordinario
radicamento sociale e dalla forte coscienza di sé, nonché libero, in parte,
dalle pastoie ideologiche più diffuse. Non che la rivoluzione fosse
proprio dietro l’angolo, checchè ne pensassero alcuni di noi, ma qualcosa
si poteva sperare comunque di fare.
Dal
punto di vista di chi gestiva il potere, naturalmente, era troppo. Per
questo furono messe le bombe. Furono messe, con la spietata, determinazione
che ha sempre caratterizzato certi apparati burocratici, per ricondurre
quel movimento ad ambiti ideologici e organizzativi più controllabili,
per portare al potere la destra e per realizzare con tutta calma quella
trasformazione culturale e costituzionale che avrebbe trovato la sua espressione
più esplicita, pochi anni dopo, nel programma della P2. Oggi che
di movimento non c’è più traccia, che la destra è al potere e che il programma
della P2 è stato realizzato quasi per intero, a chi volete che importi
sapere come sono andate davvero le cose? La verità, come diceva
quel tale, è sempre rivoluzionaria. Non una cosa, quindi, che si
possa cercare nei tribunali.
08.05.’05