29 anni dopo

La caccia | Trasmessa il: 12/20/1998



Concedetemi, per una volta, di partire da un’esperienza personale.  Anzi, da una contraddizione personale.  Martedì scorso era il 15 dicembre, per cui, la sera, sono sceso, come si dice, in piazza insieme a un certo numero di persone, in gran parte compagni anarchici, per ricordare l’assassinio di Giuseppe Pinelli.   È un appuntamento che da anni cerco di non perdere: un impegno cui mi spiacerebbe molto mancare e che ritengo dovrebbe riguardare tutti quanti, anarchici o no, hanno a cuore il problema della giustizia nel nostro paese.  Ma al tempo stesso (è in questo consiste la contraddizione) mi sono accorto che si tratta di un’esperienza che si sta facendo, anno dopo anno, sempre più surreale, sempre più difficile da vivere e che mai più surreale e più difficile da vivere mi è sembrata di questa volta.
        Vedete, non era tanto il fatto che fossimo pochissimi, non più di due o trecento persone, e che quindi non manifestassimo altro che la nostra debolezza, o meglio, l’avremmo dimostrata se, nella città gelida e deserta, ci fosse stato in giro qualcuno cui manifestarla.  Non ho mai creduto che per avere ragione sia necessario essere in tanti (anche se qualche volta – vi confesso – mi piacerebbe) e, in fondo, sono abbastanza convinto che anche manifestare davanti a se stessi sia, in certe occasioni, un  dovere cui non bisogna sottrarsi.  E non era tanto perché, quest’anno, il nostro piccolo corteo era animato, per così dire, da un certo numero di giovanotti volonterosi, che, applicando le procedure di quello che credo si chiami il “teatro di strada”, si affannavano a illustrare, non senza una certa eloquenza gestuale, il significato della manifestazione e della ricorrenza.  Certo, la loro presenza sarebbe stata molto più utile se, oltre ai manifestanti, si fosse aggirato per le vie della Milano notturna qualche altro essere bisognoso di ricevere spiegazioni: in mancanza di interlocutori, di fatto, la loro presenza aveva un forte sapore di autoreferenzialità, come se fosse volta a spiegare a quanti erano scesi in piazza, ai manifestanti, i motivi per cui ci erano scesi, come a dire le cose che proprio loro intendevano manifestare. Ma anche a questo, in fondo, siamo abituati e, tutto sommato, che ci siano dei giovanotti che applicano le loro capacità e la loro incipiente professionalità a tentativi di spiegazione di questo tipo, in fondo, non può che fare piacere.
        No.  Il vero problema, ve lo confesso, era rappresentato dall’età dei miei compagni di manifestazione.  Erano quasi tutti, salva eccezione, giovanissimi: ragazzini, quasi.  Pochi tra loro dovevano avere più di vent’anni e quasi nessuno poteva aver vissuto quei terribili giorni di ventinove anni fa, quando l’assassinio di Pinelli si sommò alle bombe di piazza Fontana per farci capire che il periodo delle illusioni era finito e che contro le nostre speranze di democrazia e rinnovamento si erano mosse delle forze molto più spietate di quanto avessimo osato immaginarci.
        Naturalmente, anche il fatto che oggi, nel 1998, due o tre centinaia di giovani siano disposti a sfidare il gelo e la solitudine del centro di Milano per ricordare l’uccisione di Pinelli, come un paio di migliaia di studenti medi, tre giorni prima, si erano presi la briga di ricordare piazza Fontana è, in sé, positivo.  Sarebbe ben triste se a manifestare il significato di quegli eventi restassimo solo noi che ne siamo stati testimoni più o meno diretti.  Ma, d’altro canto, il fatto stesso che ancora oggi, nel 1998, si senta il bisogno di manifestare pubblicamente quel significato e che a farlo siano dei giovani, non è in sé sintomo di qualcosa di cui compiacersi.
        Mi spiego.  Mentre osservavo quanto fossero giovani i miei compagni di manifestazione, mi è venuto in mente che io, alla loro età, nei primi anni ’60, non mi sarei mai sognato di partecipare a una manifestazione per qualcosa successo trent’anni prima.  E non perché alle manifestazioni, allora, fossi riluttante, che, anzi, nel mio piccolo non me ne lasciavo scappare una, o che degli eventi dei primi anni ’30 (che so: la crisi di Wall Street, o la firma dei Patti Lateranensi, o l’incendio del Reichstag,) negassi l’importanza e il significato.  Il fatto è che quegli eventi, per me e per i miei coetanei, avevano un significato che non occorreva manifestare, un significato riconosciuto, pur nella varietà dei punti di vista e delle sfumature teoriche, dalla cultura del nostro tempo.  Insomma, facevano parte della storia, come a volte si dice, con un’espressione che in sé non è troppo brillante, perché della storia, naturalmente, fa parte qualsiasi evento umano, recente o remoto, ma che per comodità possiamo anche risolverci ad adottare.  Affermare che un certo evento “fa parte della storia”, dopo tutto, significa esattamente che tutti, più o meno, concordano sul suo significato e sulla sua importanza.  Le sfumature di giudizio, in questi casi, tendono a essere di tipo professionale, a riguardare prevalentemente gli specialisti di giudizi sul passato (gli storici, appunto).
        In questo senso né la strage di piazza Fontana né l’assassinio di Pinelli, con tutti i tristi episodi che vi sono variamente correlati, appartengono alla storia.  E non perché i quasi trent’anni trascorsi non siano sufficienti per consentirlo.  Il fatto è che la nostra società, nel suo complesso, non ha ancora elaborato la cultura necessaria per ammetterlo.  Una parte importante del paese, una parte che comprende, oltretutto, l’intero livello istituzionale, continua a rifiutarsi di riconoscere in quei fatti quello che gli altri, a mio avviso a ragione, da subito vi hanno visto.  E così le autorità, di qualsiasi colore o appartenenza ideologica siano, continuano a glissare sull’argomento (e a nascondere, probabilmente, responsabilità personali di cui sono benissimo a conoscenza) e la magistratura, unanime nelle sue molte anime, continua a ripetere, come impazzita, inchieste e processi che tutti sanno destinati all’inconcludenza.  La nostra classe dirigente non è riuscita a esprimere nessun giudizio in merito, in un senso o nell’altro, e noi, almeno quei pochi di noi che a esprimere un giudizio ci tengono, siamo condannati ad infinitum a manifestarlo pubblicamente e polemicamente. I giovani che, ne sia riconosciuto loro pubblico merito, partecipano a questa funzione, e anzi la animano (perché noi anziani, a questo punto, non siamo in grado di animare un gran che) non lo fanno in nome di un passato che non è il loro, ma non possono farlo neanche in nome di una storia che non è potuta diventar tale. Il che è degno di lode, ma può ingenerare anche un po’ di frustrazione, giustificando quell’impressione di irrealtà di cui vi dicevo all’inizio.
        Il che non significa, naturalmente, che abbiamo intenzione di smettere.  Ma che fatica.

20.12.’98