0601 operazione Befana
“Senti, Befana” mi ha detto il capo,
quando mi sono presentata a rapporto mercoledì scorso, ancora un po’ sbalestrata
per i postumi della festa di capodanno. “Ricordati di tenerti libera
sabato sera. Ho un incarico che sembra fatto apposta per te.”
Naturalmente
gli ho risposto che con il nome di Befana poteva rivolgersi a sua madre
o, a scelta, a quella simpatica zoccola di sua sorella, ma sapevo già che
era come parlare al vento. Da quando lavoro per lui, ed è già da
un bel po’, mi chiama sempre e soltanto in quel modo. Niente di
strano e – soprattutto – niente di originale: prima o poi la tentazione
viene a tutti. E non perché io sfoggi, badate, un viso rugoso da
centenaria o sia solita muovermi a cavallo di una scopa. È solo per
motivi di anagrafe. Mio padre, di venerata memoria, nutriva tanto
rispetto per il suo (o ne aveva tanta paura, non so), che non ha resistito
alla tentazione di battezzare con il suo nome la figlia primogenita, che
sarei poi io. E mio nonno si chiamava, irrevocabilmente, Epifanio.
E con quale epiteto volete che si rivolga, la gente, a una povera
disgraziata che risponde al nome di Epifania, con l’accento sulla prima
a? Voi, naturalmente, a chiamarmi Befana farete meglio a non provarci
nemmeno, perché, fin da quando andavo all’asilo, ho sviluppato una certa
quantità di tecniche di dissuasione, ma il capo è il capo, e con lui devo
abbozzare. E dire che, se sono entrata alle sue dipendenze, è stato
proprio perché mi allettava la prospettiva di usare, il più delle
volte, dei nomi falsi.
“Oh,
smettila, Befana” ha proseguito lui, imperturbabile. “Non dire
di queste cose. Non stanno bene, in bocca a una signora. Lo
sai che cos’è sabato prossimo, vero?”
Sabato
prossimo, ho ricostruito dopo un breve calcolo mentale, doveva essere il
cinque gennaio, una data che, dal punto di vista del calendario, non mi
sembrava significasse proprio niente. Ma, naturalmente, la notte
tra il cinque e il sei era...
“È
la notte dell’Epifania” gli ho risposto a denti stretti. La dodicesima
notte dopo Natale.”
“Hai
letto Shakespeare, vedo” ha commentato, con una punta di ironia. Il
fatto che una sua sottoposta abbia regolarmente compiuto gli studi classici
non gli è mai andato giù. “Per noi incolti è solo la notte in cui
la Befana scende per il camino. Ed è qui che entri in ballo tu, naturalmente.”
“In
che senso?” gli ho chiesto, allungando la mano, senza parere, verso il
pesante portacenere di cristallo. Capo o non capo, se si fosse azzardato
a fare un altro gioco di parole sul mio nome, era la volta che glielo spaccavo
sul cranio. Una ragazza ha la sua dignità da difendere.
“Nel
senso che sei invitata a una festa” si è affrettato a spiegare, come se
mi avesse letto nel pensiero. “La festa di compleanno di Milos Valenskij.”
Mi
sono calmata subito. Il capo, evidentemente, non aveva nessuna intenzione
di scherzare. Il nome di Milos Valenskij, in effetti, era uno di
quelli su cui, dalle nostre parti, non scherzava nessuno. Apparteneva
a un gentiluomo di origini balcaniche, che aveva impiantato nel nostro
paese una prospera attività di import export, nel senso che importava soprattutto
eroina ed esportava principalmente armi da guerra in vari teatri di operazione.
In effetti, il nostro ufficio, chiamiamolo così, gli stava dietro da parecchio.
Per dirla tutta, non c’era uno di noi che non avrebbe dato un braccio
per avere il piacere di incastrarlo.
“È
nato il sei gennaio?” ho chiesto, tanto per guadagnare tempo.
“Il
cinque. E ha organizzato una festa per tutti i suoi, ehm… collaboratori,
in quella grossa discoteca sui vialoni, vicino allo svincolo dell’autostrada.
L’Ocean, Il Pacific, non ricordo bene come si chiama…”
“L’Atlantic”
l’ho corretto meccanicamente. Oggi non frequento le discoteche con
l’assiduità di qualche anno fa, ma bisogna sempre tenersi aggiornate.
“Sì, esatto. Una festa privata,
a inviti, con cubiste a gogò, consumazioni libere e tutto il resto.”
Una festa privata nella discoteca più
frequentata della città, e per di più di sabato sera, doveva costare una
cifra da sballo, ma era noto come il soggetto in questione non avesse problemi
di conto in banca. E poi, probabilmente, il locale era suo.
“E noi come facciamo a saperlo?” non
ho potuto fare a meno di chiedere.
“Be’, non credo che sia quel gran
segreto, almeno nell’ambiente. Forse lo sa persino la polizia. Ma,
in effetti, la cosa interessante è proprio come l’abbiamo saputo. Ce
l’ha riferito Enver.”
C’era qualcosa che non funzionava.
Anche Enver, che, sia detto tra di noi, fa di mestiere l’informatore,
apparteneva a un’organizzazione balcanica di import export, ma non alla
stessa di Valenskij. Anzi, era largamente noto che tra le due ditte
correva, per così dire, una certa animosità. Le solite questioni
di concorrenza, complicate dal problema delle appartenenze etniche. Non
se se ci avete mai fatto caso, ma laggiù all’etnia ci tengono ancora.
“Enver?”
Il capo si è lasciato sfuggire un risolino,
come fa sempre quando sta per tirar fuori un asso dalla manica. “Già”
ha spiegato. “C’è una cosa curiosa. Sono stati invitati anche
loro.”
Altro che cosa curiosa. Che il
locale clan degli albanesi fosse stato invitato alla festa di compleanno
del leader della mafia slava emergente era ai limiti dell’assurdo. Era
un po’ come se Berlusconi avesse deciso di invitare a un picnic nel giardino
della sua villa lo stato maggiore dell’Ulivo, più un paio di tute bianche
per rendere più vivace la compagnia.
“Ci dev’essere in ballo qualcosa di
grosso” ho commentato.
“Certo che c’è in ballo qualcosa di
grosso” ha ribattuto il capo. “Enver dice che verrà anche Kupe
Xhupa.”
Kupe Xhupa, meglio noto (in sua assenza)
come “il Vitello”, era l’equivalente, a livello operativo, di Milos
Valenskij. Evidentemente quella festa doveva avere, nelle intenzioni
degli organizzatori, una certa importanza diplomatica.
“Avranno in programma una specie d’accordo…”
“Già” ha commentato, laconico, lui.
“Accidenti, capo” sono sbottata. “Può
essere una cosa importante. Non possiamo fidarci solo di Enver. Dobbiamo
mandare qualcuno a controllare di persona. Mi piacerebbe proprio
vederli insieme, quei due...”
Lui ha annuito con aria compiaciuta
e io sono ammutolita di colpo. Avevo capito, un po’ in ritardo,
chi avesse deciso di infiltrare in quell’allegra combriccola.
“Ecco, brava” ha detto. “Hai
capito. D’altronde te l’avevo detto che era un incarico fatto apposta
per te.”
“Credevo che scherzasse” avevo ribattuto
debolmente.
“Io non scherzo mai. Sta’ a
sentire: quelli non vogliono personale estraneo tra i piedi. I baristi,
i deejay, gi inservienti sono tutti uomini di fiducia di Valenskij. Xhupa
manderà qualcuno dei suoi a dare una mano, e a tenerli d’occhio, suppongo.
Alle cubiste, naturalmente, ci pensano gli albanesi: sai che hanno
una certa disponibilità di… materia prima. Ma c’è una cosa interessante.
Un amico di Enver ha avuto l’incarico di procurare una befana e
lui si è fatto passare l’incarico. Manderà quella che gli forniremo
noi”
C’era qualcosa che mi sfuggiva. “Una
befana?”
“Sì. Sai, quella cara vecchietta
a cavallo di una scopa, con una gerla piena di regali per i bambini buoni…
Visto che è la notte dell’Epifania, Milos ha deciso di fare un regalo
a tutti, e vuole che sia la Befana a distribuirli.”
Spiritosissimo. “E io dovrei…”
“Te l’ho detto: è un incarico che
ti tocca. Noblesse obblige. Un po’ di trucco, una bella scopa
e…”
Gli ho ricordato che non so una parola
di albanese o di serbocroato.
“Non usano mai la lingua uno dell’altro.
Tra di loro devono parlare italiano per forza. Comunque, all’inizio
avevamo pensato di mandarti con un microfono addosso.”
Splendido. Quello di avventurarsi
in una discoteca piena di criminali presumibilmente ubriachi e/o strafatti,
con un bel microfono nascosto sotto la camicetta, non era quel che si dice
un incarico tranquillizzante. Mi sono permessa di farglielo notare.
“Non ti preoccupare” mi ha risposto.
“Non se ne fa niente. Intanto, c’è troppo rischio di interferenze
con gli impianti. E poi non ne abbiamo di abbastanza miniaturizzati.”
La spiegazione mi è sembrata oscura.
“Cosa intende dire?”
“Come credi che le vogliano le befane
quei tipi lì?”
“Come le vogliono?”
Ha giochicchiato un poco con le carte
che aveva davanti. Se non l’avessi conosciuto, avrei detto che era
imbarazzato.
“Ecco… non molto vestite.”
“Come?”
“Be’… Diciamo che non dovrai
preoccuparti del costume. Un naso finto, un cappellaccio da strega,
la gerla, una scopa…”
“E poi?”
“Poi basta. Dovrai farti passare
per una cubista di un livello un po’ più su delle altre.” Tossicchiò.
“In effetti, temo che questo significhi che prima della distribuzione
dei regali dovrai esibirti per qualche tempo su un cubo.”
“Senza vestiti?”
“Senza vestiti? Dovresti sapere
che non lo permetterei mai. E comunque a loro piace che le ragazze
abbiano addosso qualcosa che si possano togliere. “In effetti…”
aveva esitato un momento, “in effetti Enver è stato d’accordo con me
che andrà benissimo un minitanga.”
“Un miniché?”
“Un minitanga e due stelline sui…
insomma, sulle punte. Farai un figurone, Befana. “ A
proposito” ha aggiunto in fretta, mentre io allungavo la mano verso il
portacenere “quelli della Ragioneria mi hanno passato la tua ultima nota
spese.”
Ho ritirato la mano. Considerando
il fatto che quella nota l’avevo redatta con una certa liberalità, l’argomento
puzzava un po’ di ricatto, ma, come avrebbe detto Sherlock Holmes, rivestiva
comunque un certo interesse.
“E?”
“E, visto che sei disposta a collaborare,
per questa volta, in via eccezionale, potrei anche dare l’okay. Quando
l’avrai riscritta, s’intende, perché, così com’è, non la possono proprio
accettare.”
Era evidentemente ansioso di cambiare
argomento.
“E perché?”
“Non hai letto la circolare, la settimana
scorsa? Dal primo gennaio, le pratiche inerenti a pagamenti e rimborsi,
devono essere tutte in euro.”
Me n’ero completamente dimenticata.
“Non basta moltiplicare il totale per duemila, o quello che è?”
ho chiesto, senza sperarci troppo.
“Impossibile. Ogni singola cifra
in lire va convertita in euro, fino al terzo decimale e arrotondata al
secondo a seconda che il terzo sia maggiore o minore di cinque.” Deve
essersi sentito girare la testa anche lui, perché si è affrettato a concludere.
“Comunque è solo una formalità. Puoi andare, adesso, Befana.
Fa’ un salto in guardaroba a provare il costume, per favore. È
quello che ho sequestrato a mia figlia il giugno scorso. E se ti
interessa qualche rudimento di lap dance, possiamo trovarti qualcuno che
se ne intende.”
Con il capo non si capisce mai se stia
cercando di fare lo spiritoso o se parli sul serio. Comunque, ho
pensato che la cosa più dignitosa fosse andarmene senza fare commenti.
Vista dall’esterno, la discoteca non
era niente di speciale: il solito ex capannone squallido, nel paesaggio
allucinante dei vialoni vicino allo svincolo dell’autostrada. L’insegna
al neon era spenta, la porta a vetri era sprangata e grossi cartelli affissi
alla claire informavano i frequentatori abituali che il locale, per quella
sera, era chiuso al pubblico. Per entrare bisognava rivolgersi all’ingresso
laterale, su cui vigilavano, al posto dei soliti buttafuori, quattro individui
dall’aria minacciosa in giaccone di pelle nera.
Gli
invitati, una volta all’interno, venivano accolti da due distinti comitati
di ricevimento, uno di slavi per gli albanesi e uno di albanesi per gli
slavi. La procedura era la stessa per tutti: dopo un abbraccio caloroso
e i tre rituali baci sulle guance, gli ospiti venivano accompagnati in
guardaroba e perquisiti con cura, senza riguardo al sesso e all’età. Alla
stessa formalità, baci e abbracci esclusi, eravamo state sottoposte noi
lavoratrici del cubo, anche se sotto le vesti, se di vesti si poteva parlare,
non avremmo potuto introdurre in sala nulla di più pericoloso di uno spillo.
D’altronde, avevo saputo da Enver che l’intero edificio era stato
ripassato al pettine fine da un comitato misto. Insomma, le parti
avevano convenuto di incontrarsi, in quella lieta circostanza, senza alcun
imbarazzo di armi e gli organizzatori volevano essere sicuri che nessuno,
per distrazione o malanimo, si portasse con sé una P38, un mitra, un obice
da campagna o un qualche analogo oggetto. La fiducia è una bella
cosa, ma è sempre meglio prevenire che reprimere.
La
mia gerla, piena fino all’orlo di pacchi e pacchetti elegantemente confezionati
in rosso e oro, troneggiava nell’altro. Avevo visto due slavi che
la scaricavano da un furgone, imprecando come se pesasse una tonnellata,
e avevo provato non poco sollievo nell’apprendere che non avrei dovuto
caricarmela sulle spalle. Era montata su ruote e, al momento opportuno,
avrei dovuto limitarmi a spingerla in sala. Badando a muovere bene
le chiappe, come mi aveva suggerito un cortese maestro di cerimonie.
E va be’. Dal tipo di serata
che si annunciava, era chiaro che quei particolari elementi della mia anatomia
non avrebbero avuto molte occasioni di stare in riposo.
Era ancora presto, i pezzi grossi non si erano ancora
fatti vedere, ma il clima era già surriscaldato. Dalle casse rimbombava
la peggior musicaccia tecno che mi fosse capitato di ascoltare da un paio
d’anni e un certo numero di mie colleghe, poverette, si stava già dando
da fare sui cubi. Attorno al bancone del bar si affollava una quantità
di tipi poco raccomandabili che assorbivano caipirinha e gin tonic con
un’efficienza da pompa idrovora. A me avevano detto di aspettare
il mio turno, a mezzanotte e di tenermi a disposizione. Per cui mi
ero infilata sul minitanga e le stelline una cosina non del tutto trasparente,
mi ero fatta dare un bacardi con acqua tonica (ci sarebbe stata bene una
goccia di angostura, ma, a quanto pareva, l’analfabeta al banco non l’aveva
mai sentita nominare) e mi ero seduta su un divanetto all’estremità del
bar. Era un posticino fuori mano, un po’ defilato dalle luci della
ribalta, che poteva benissimo fungere da punto d’osservazione. Finché
durava, naturalmente.
Per un’oretta ha durato: il tempo che
la festa si mettesse in moto davvero. Me ne sono stata buona buona
a guardare i tipi e le tipe che entravano in sala, si guardavano attorno,
facevano gruppo con i conoscenti, passavano al bar, facevano un salto alla
toilette, ne tornavano con un’aria allucinata che faceva supporre che
non fossero andati soltanto a far pipì o a incipriarsi il naso, e, poco
per volta, su proposta, in genere, dell’elemento femminile, si decidevano
a scendere in pista. Gli uomini erano praticamente tutti in giubbetto
di pelle e baffi d’ordinanza e, nel complesso, rappresentavano una collezione
di tipi criminali che avrebbe fatto la felicità di Lombroso. Le donne
variavano dal tipo dark alla bambolona bionda: sembravano molto, ma molto
attente a quello che dicevano i loro compagni e ridacchiavano ogni tre
per due. Il frastuono era spaventoso e la temperatura doveva aggirarsi
sugli ottanta gradi.
Il padrone di casa non si è fatto vedere
fin verso le dodici meno un quarto. C’è stato un po’ di subbuglio
vicino alla porta ed eccolo lì, alto, magro, macilento, con la carnagione
pallidissima e un paio di occhiali scuri. Era in smoking e sembrava
la controfigura di Christopher Lee. Si è fermato un momento a guardare
la sala, ha risposto con un cenno alle varie manifestazioni di saluto e
di augurio e si è avviato verso il bar, circondato dai suoi guardaspalle.
Contemporaneamente, dall’altra parte della sala, un altro gruppetto
si è staccato dal muro e gli è andato incontro. Mi sono resa conto
che il tipo bassotto al centro doveva essere Kupe Xhupa: la faccia larga,
le ciglia lunghe e l’espressione bovina giustificavano ampiamente il suo
soprannome. Invece di poggiare su un mozzicone di collo e su un paio
di spalle fasciate dalla giacca di un elegante completo blu scuro, la sua
testa avrebbe dovuto far bella mostra di sé sul bancone di marmo di una
macelleria di paese.
I due si sono avvicinati l’un l’altro
a passi lenti, teatrali. Poi si sono abbracciati e si sono scambiati
i tre soliti baci: prima sulla guancia destra, poi sulla sinistra, poi
ancora sulla destra. Il barista aveva preparato sul banco due minuscoli
bicchierini e li stava riempiendo con un liquido incolore. Milos
ha fatto un cenno d’invito all’ospite, ha aspettato che lui si servisse,
ha preso il suo bicchierino e l’ha sollevato verso Kupe in un brindisi
muto. Tutti e due hanno ingollato il contenuto di un fiato e hanno
scaraventato i bicchieri vuoti per terra. E poi si sono seduti su
due sgabelli e si sono messi a parlare.
Erano proprio a pochi metri da dove
stavo io e, nonostante il casino immane, li sentivo benissimo. Il
guaio era che, nonostante le profezie del mio capo, non parlavano affatto
italiano. Poteva darsi benissimo che nessuno dei due capisse, o non
volesse capire, la lingua dell’altro, ma, in quel caso, avevano avuto
l’accortezza di ripiegare su un idioma terzo che alle orecchie di eventuali
estranei in ascolto, come me, non era più comprensibile dell’ostrogoto.
E comunque non avevo tempo per uno studio linguistico comparato:
stava per suonare mezzanotte e il tipo che supponevo fungesse da caposala
si stava guardando intorno chiedendosi, con tutta evidenza, dove diavolo
fossi finita. Per cui mi sono alzata, mi sono fatta notare e l’ho
seguito in camerino. Un minuto più tardi facevo il mio ingresso trionfale
in sala spingendo la gerla. Due minuti dopo, senza il vestito, con
un cappellaccio da strega sulla testa e una vecchia scopa di saggina tra
le mani, mi stavo già dimenando sul cubo di mia spettanza.
Be’, non so quanti o quante di voi
abbiano qualche esperienza di cubista da discoteca. A meno di mancare
del tutto di senso del ritmo, non è un mestiere difficile. La musica
suona e tu ti muovi. Nel mio caso la situazione era leggermente complicata
dal costume, chiamiamolo così, che mi ritrovavo addosso, ma una volta messa
tra parentesi la naturale modestia e accantonata l’impressione di essere
soprattutto ridicola, grossi problemi non ce n’erano. Ti avvoltoli
attorno al manico della scopa, muovi le anche con quanta più grazia e discrezione
possibile, ti pieghi sulle ginocchia, ti rialzi spingendo in avanti il
bacino, e poi, uno, due, tre, quattro, ti stringi di nuovo al petto la
scopa e ricominci da capo. Il vero problema è che ci si annoia parecchio.
Ti annoi e rifletti che, porca miseria, dopo tutta una vita passata
a combattere contro il tuo nome, adesso ti tocca fare la Befana per una
banda (anzi, due bande) di delinquenti internazionali. E non la vecchia
Befana cui credono, più o meno, tutti i bambini, ma una stupida befana
sexy con le chiappe e le tette al vento, il tipico frutto della fantasia
malata di certi bambinoni balcanici troppo cresciuti. La Befana non
deve dimenarsi su un cubo come tutte quelle altre poveracce, che almeno,
se hai afferrato bene la situazione, ci hanno guadagnato una serata libera
da impegni alquanto più disgustosi, mentre tu avresti potuto benissimo
startene a casa a farti una bella dormita, che sa Dio se non ne hai bisogno.
La Befana viene dai monti, vien dai monti a notte fonda, ed è stanca,
tanto stanca, come me, appunto, ma lei è vecchia e la circonda neve gelo
e tramontana, mentre qui fa un caldo tremendo e, per dirla tutta, c’è
una discreta puzza di sudore. La Befana vien di notte con le scarpe
tutte rotte, no, questa è una filastrocca, l’altra era una poesia seria,
o quasi, l’ho studiata a memoria alle medie, credo, dev’essere del Pascoli,
è una Befana intellettuale che non porta doni a nessuno, ma è testimone
delle umane ingiustizie, una specie di icona invernale, con le mani al
petto in croce, e la neve è il suo mantello ed il gelo è il suo pannello
ed è il vento la sua voce, mi sento morire di freddo solo a pensarci, sì,
la Befana sta sul monte ed ha nuvoli alla fronte, nel senso che è piuttosto
rattristata per l’umanità tutta e chi potrebbe darle torto, di questi
tempi, oppure si acquatta tra i cespugli e spaventa le fanciulle che vanno
ad attingere l’acqua al pozzo, ma questo proprio non c’entra, per cui
deve essere qualcosa d’altro, un'altra poesia, magari, una cosa da liceo,
mi sembra, chissà se riesco a ricordarla, sì, eccola, madonna se ne vien
dalla fontana, qualcosa del genere, viene contro l’usanza con vòto l’orcetto,
come a dire che la ragazza ha visto la Befana in agguato, si è spaventata
e si presenta con il secchio vuoto e il poeta le offre le sue lacrime per
riempirlo, che è un’immagine – diciamolo – abbastanza barocca, anche
se sono sicura che quella poesia barocca non è, dev’essere un sonetto
del Quattrocento e perché mai una ragazza, nel Quattrocento o in altra
epoca, dovrebbe avere paura della Befana, come fosse una biscia o un cane
arrabbiato, non si capisce proprio, befana non è sinonimo di babau, è un’entità
benefica, la personalizzazione del nome di una festa, l’Epifania, appunto,
che vuol dire che il Signore si manifesta in quanto tale, che è sempre
una bella cosa, ma all’autore di quel sonetto evidentemente non doveva
interessare più di tanto, ma chi cazzo era, ah sì, ecco, Filippo Brunelleschi,
quello della cupola del duomo di Firenze, be’, forse avrebbe fatto meglio
a limitarsi all’architettura, ma comunque c’è su tutte le antologie e
chissà come mai me lo ricordo, il fatto è che non riesco a dimenticare
niente, anche le cazzate più insignificanti, la prof di italiano, al liceo,
mi chiedeva sempre i minori, era una specie di fissazione, ce l’aveva
con me, quella stronza, comunque io la fregavo lo stesso perché li sapevo
tutti, come quella volta all’interrogazione generale sul Machiavelli,
mi ero letto il Principe da capo a fondo e lei , tan
to per farmi un dispetto, aveva voluto
l’elenco completo delle opere politiche minori e io, zac, gliele ho snocciolate
tutte, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana, naturalmente, il
Rapporto delle cose della Magna e il Ritratto delle cose di Francia, figuriamoci,
e la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo
Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini,
che poi non era un modo particolarmente originale, li aveva invitati a
una festa, come Tissaferne con i mercenari di Ciro il giovane, e quando
erano stati lì li aveva…
Oh,
cazzo.
Il duca Valentino e Vitellozzo Vitelli.
Valenskij e il Vitello.
Una festa.
Un
momento, un momento, un momento, cerchiamo di ragionare. Certo, Valenskij
avrebbe tutto l’interesse a far fuori Xhupa, soprattutto se si fosse già
messo d’accordo con qualche dissidente dell’organizzazione di lui, che
ce ne sono parecchi, e farlo così, coram populo, in una festa in discoteca,
davanti alle due bande riunite, sarebbe un colpo di teatro di grande efficacia
pubblicitaria e senza rischi particolari, qui sono tutti militanti dell’import
export e la polizia non lo verrebbe a sapere mai, certe cose questi tipi
se le risolvono da sé, ma il problema è come farlo, ci hanno tutti perquisiti
all’ingresso, hanno ripassato l’edificio palmo a palmo, armi in giro
proprio non ce ne sono, strozzarlo a mani nude non può, perché è molto
più giovane e robusto di lui e nessuno ha potuto introdurre niente, l’unica
che ha portato dentro qualcosa sono stata io quando ho spinto in sala la
gerla.
Già,
la gerla.
Chissà
se hanno pensato a perquisire la gerla.
Dunque
la gerla l’ho vista arrivare, l’hanno scaricata da un furgone due uomini
di Valenskij, ovvio, poi è stata nell’atrio fino a quando non sono andata
a prenderla io.
Capaci
che non ci hanno nemmeno pensato, a perquisirla.
D’altronde
è piena di bei pacchettini colorati, basta mettersi d’accordo sui colori,
a te che sei dell’opposizione una bella cravatta, a te invece, che sei
dei nostri, un pistolone grosso così. Finita la distribuzione, tutti
aprono i loro pacchetti e comincia la strage. Testimoni estranei
all’ambiente, tanto, non ce ne sono.
Tranne,
naturalmente, me.
E
adesso che faccio?
Non ho fatto niente, in realtà, perché
mi è mancato il tempo. Mi stavo baloccando con l’idea di individuare
Enver e spedirlo ad avvertire il capo, o la polizia, o le forze armate,
ma chissà dove lo trovavo Enver, era un giubbotto nero e un paio di baffi
tra un centinaio di giubbotti neri e paia di baffi e poi lui faceva l’informatore
e non era tenuto a darmi una mano a rischio di farsi accoppare dai suoi
soci. E comunque la musica si era fermata e Valenskij aveva preso
il microfono per fare un discorso.
Un
bel discorso, anche se non ero nelle condizioni ideali per apprezzarlo.
Grazie a tutti per essere venuti, sperava che si stessero divertendo,
lui aveva gradito molto gli auguri e comunque la festa non era finita,
anzi, si poteva dire che il meglio dovesse ancora venire. La serata,
comunque, segnava un momento importante per le due organizzazioni, che,
d’ora in poi, messe da parte le incomprensioni e le diffidenze reciproche,
avrebbero perseguito con rinnovato vigore i propri obiettivi. Risatine
e applausi.
“E
adesso” ha proseguito, “visto che siete stati tutti buoni, la nostra”
e qui ha sparato una raffica di consonanti che spero solo che volessero
dire Befana nella sua lingua “ci ha portato i regali. Forza, Befana,
facci vedere che cosa hai nella gerla!”
Per
cui sono scesa dal cubo e gli ho spinto la gerla davanti. Mi sono
chinata e gli ho passato il pacchetto più in alto, che lui ha trasmesso
a Xhupa, che lo ha aperto subito con manifestazioni di gratitudine e compiacimento,
soprattutto perché c’era dentro una busta di plastica con almeno un etto
di finissima polvere bianca. Un astuccio con una spilla per una tipa
con il piercing al naso. Poi un altro pacchetto, in cui il fortunato
destinatario ha trovato una mazzetta di euro nuovi di pacca. Quindi
una scatola minacciosamente pesante per uno slavo, che ha dichiarato di
riserbarsi il piacere di aprirla dopo. Un sacchettino che doveva
contenere una dose di polvere, magari una dose un po’ meno abbondante
di quella toccata al capo. Un portafoglio, presumibilmente tutt’altro
che vuoto. Un’altra scatola dall’aria sospetta. Insomma,
tutto andava secondo le previsioni peggiori. L’unico elemento positivo
consisteva nel fatto che gli slavi non si decidevano ad aprire i loro pacchetti:
evidentemente aspettavano una specie di segnale. Ma quale?
Poi,
mentre Valenskij scherzava con una bionda bene in carne che aveva ricevuto
un braccialetto d’oro, mi sono azzardata a chinarmi e dare un’occhiata
dentro alla gerla. Altro che segnale. Tra i pacchetti e i sacchettini
superstiti spuntava qualcosa che, per mia disgrazia, riconoscevo benissimo.
Quello, salvo errore, era il calciolo di una Skorpion. E Valenskij
stava arrivando, e, prima o poi, lo avrebbe impugnato e i suoi scherani
avrebbero aperto i loro regali e…
Cosa
potevo fare? Mentre lui si chinava sulla gerla, ho alzato la scopa
e gliela ho abbassata sul cranio con tutte le energie di cui disponevo.
Devo
averlo preso in un punto sensibile, o forse aveva un’ossatura particolarmente
sottile, perché è andato giù come una pera. E io, nel nanosecondo
in cui tutti restavano lì come allocchiti, chiedendosi se era un qualche
tipo di scherzo previsto dal programma o se ero diventata matta di colpo,
ho fatto un tuffo in avanti, ho afferrato la mitraglietta e gliela ho spianata
in faccia, come da manuale, retrocedendo fino al muro.
“Fermi
tutti!” ho gridato.
Sono
restati di sale. D’altronde erano disarmati, tranne quei due o tre
che avevano in mano una scatola in cui, se avevo visto giusto, non dovevano
esserci delle caramelle, ma che non potevano aprirla senza richiamare la
mia attenzione. Non potevano far proprio niente. Il guaio,
naturalmente, era che non potevo fare niente neanch’io.
Ma
poi, visto che la fortuna aiuta i meritevoli, mi sono accorto che tra i
tipi in prima fila c’era proprio Enver, che fosse benedetto. Ho
spostato di un centimetro la Skorpion, puntandogliela addosso.
“Tu!”
ho gridato, cercando di sembrare più fredda e determinata possibile. “Tira
fuori il telefonino.”
Non
poteva certamente dire di no, poveraccio. Se gli altri avessero scoperto
che era in rapporti con il mio ufficio, lo avrebbero fatto a pezzi prima
ancora di me. Speravo soltanto che non avesse lasciato il telefonino
a casa.
No,
per fortuna. Lo ha tirato fuori.
“Fa
questo numero” gli ho intimato, snocciolandogli le tre cifre della nostra
chiamata di emergenza.
E
lui ha fatto il numero, e ha ripetuto le parole di codice che gli suggerivo
e nessuno si è sognato di muoversi. Erano lì, congelati come nel
fotogramma finale di un telefilm.
Il
capo mi aveva detto che avrei fatto un figurone. Ma avrebbe dovuto
vedermi adesso, in quell’autentico momento di gloria, mentre, nel mio
abbigliamento essenziale, puntavo una Skorpion contro quei brutti tipi,
e intanto i minuti passavano inesorabilmente e da fuori si sentivano già
le sirene in arrivo (il capo doveva avere chiamato d’urgenza la polizia)
e tra un attimo sarebbero arrivati i nostri, evviva evviva, e Valenskij
sarebbe finito in galera per tentato omicidio o qualcosa del genere e gli
altri, con tutta la droga e le armi che c’erano in giro, i loro guai li
avrebbero passati di certo e, probabilmente stavano pensando che, porca
miseria, un momento prima erano lì che si divertivano e ballavano e bevevano
e si facevano di coca e adesso stavano per essere caricati sui cellulari
e portati in questura e chissà quando avrebbero potuto dedicarsi di nuovo
ai loro impegni malvagi.
Be’,
tanto peggio per loro. Avrebbero dovuto saperlo, comunque, che l’Epifania
tutte le feste se le porta via.
0601 Operazione Befana, in Epifania di sangue, Todaro, Lugano, 2001