Dunque, sembra sicuro che tra i simboli
politici proposti alla nostra attenzione, dopo l’Asinello, ci toccherà
anche quello dell’Elefante. Come sempre, il conclamato desiderio dei nostri
politici di essere “nuovi” o “moderni”, anche sul piano simbolico,
si risolve nell’imitazione pedissequa degli Stati Uniti d’America. Con
la differenza, naturalmente, che laggiù i due nobili animali caratterizzano,
più nella tradizione che nell’uso corrente, due partiti decisamente alternativi
l’uno all’altro, mentre da noi ben poco di alternativo si può trovare
in formazioni che, oltre a essere entrambe zeppe di ex democristiani, nascono
per presidiare lo stesso spazio politico per conto dei rispettivi poli,
con lo scopo dichiarato di sfruttare quella che, fin dai tempi di Craxi,
si suole chiamare la “rendita di posizione”, come a dire per farsi pagare
profumatamente il proprio ruolo di portatori di acqua.
Eppure,
sarebbe difficile far risalire la scelta di quei simboli a qualcosa d’altro
che alla volontà di imitare i padroni americani. Asini ed elefanti,
che io sappia, non hanno mai avuto un particolare significato simbolico,
in politica o altrove. Sì, l’asino è stato a lungo l’emblema della
cieca ostinazione, della riluttanza ad apprendere, e la testata di un famoso
periodico socialista dei primi del secolo lo paragonava nientemeno che
al popolo, anch’esso “umile, paziente e bastonato”, ma oggi la riluttanza
ad apprendere è troppo diffusa perché la si possa limitare a qualche gruppo
specifico e l’umiltà, con tutto il rispetto dovuto, non sembra la dote
caratteristica dell’on. Prodi e dei suoi compagni di strada. D’altro
canto, un tempo dell’elefante si soleva vantare la memoria, che è anch’essa
una dote difficile da associare a una struttura politica i cui leader,
come dimostrano i casi degli onorevoli Segni e Masi, fanno fatica a ricordare
persino in quale schieramento sono stati eletti.
Va
anche detto che la mancanza di memoria non è una caratteristica che si
possa associare soltanto a quel gruppo politico. Anzi, forse è proprio
nella sua diffusione che possiamo cercare la chiave con cui spiegarci la
vaghezza che caratterizza da un po’ la scelta dei simboli politici.
Perché l’asino e l’elefante non esprimono, in sé, dei particolari
messaggi, ma non è che la quercia o l’ulivo, tanto per passare dal mondo
animale a quello vegetale, siano degli emblemi particolarmente eloquenti.
Sono, sempre con tutto il rispetto, delle etichette piuttosto generiche,
assunte, a suo tempo, proprio in nome della loro genericità, perché lasciavano
mano libera a chi le inalberava. I simboli di una volta, quelli con
cui siamo cresciuti noi, le croci, le falci e martello, i pugni chiusi
e quant’altro, attingevano alla loro stessa storia dei significati piuttosto
precisi, esprimevano – come si dice – un’identità “forte”, più forte,
talvolta, della volontà di chi li aveva ereditati. Per questo appunto
sono stati dismessi. Oggi un’identità, forte o debole, in politica
non la vuole nessuno. Se Prodi, Rutelli, Di Pietro, Cacciari e gli
altri hanno deciso, dopo qualche sofferenza, di farsi chiamare semplicemente
“i democratici” ciò non vuol dire, credo, che neghino agli altri una
patente di democraticità o che affermino, in qualche modo, di essere più
democratici di loro. Sarebbe, dal punto di vista delle comunicazioni,
un errore grave, che non sono tanto asini da commettere. Hanno semplicemente
scelto la minima comun denominazione disponibile sul mercato. Sono
democratici: embé? Non lo siamo forse tutti? Quell’epiteto
non li impegna a niente, perché quel vecchio termine, che pure ha significato
qualcosa nella storia ideologica del pianeta, ormai è tanto usurato da
risultare perfettamente innocuo. L’asinello è libero di galoppare
nella direzione che vuole.
Quelli
che di galoppare sono un po’ meno liberi, restiamo noi.
21.03.’99