Chissà come sarà venuta in mente, a
due studenti di prima di un liceo milanese, l’idea di mandare a una loro
compagna, a scuola, un mazzo di fiori con un biglietto che rievocava una
“notte indimenticabile”. L’usanza di celebrare con un omaggio
floreale gli incontri galanti appartiene più al repertorio dei viveur di
fine Ottocento che al bon ton contemporaneo (non risulta che la pratichi
nemmeno un inguaribile passatista come il presidente Berlusconi) e mi piacerebbe
proprio sapere a quale fonte i due bravi giovani si sono ispirati. Evidentemente,
il repertorio delle letture dei liceali è più ampio di quanto, normalmente,
si creda e comprende anche qualche autore non in programma: che so, se
non proprio D’Annunzio, almeno Tom Antongini.
Comunque, non era vero niente. Non
c’era stata nessuna notte indimenticabile e quei fiori erano solo uno
scherzo, mirante a mettere in pubblico imbarazzo la destinataria. È
improbabile, naturalmente, che le cose siano andate proprio come riferiscono
le cronache, con il bidello che arriva in classe con i fiori, la ragazza
che arrossisce, i compagni che escono in un boato e via dicendo, perché,
per quel che so io di licei, se a scuola arriva un mazzo di fiori per un
alunna, è difficile che un bidello provveda a recapitarlo direttamente
in aula ed è molto più verosimile che il bouquet finisca subito in presidenza,
ma le goliardate del genere sono sempre da deplorarsi, visto che tutti,
studentesse di prima liceo comprese, hanno diritto alla più ampia riservatezza
sul come passino o non passino le proprie notti, e bene ha fatto il consiglio
di classe a infliggere ai due spiritosoni la pena di un giorno di sospensione,
da scontarsi lavorando in biblioteca. Una sentenza abbastanza equilibrata,
che fa sperare che nelle scuole il buon senso non si sia completamente
estinto.
Meno sensata, naturalmente, è stata
l’iniziativa di chi, nelle more del procedimento disciplinare, ha pensato
bene di mettere il tutto nelle mani della polizia, con conseguente arrivo
degli agenti in istituto, interrogatorio dei reprobi e diffusione della
notizia a mezzo stampa, con il risultato che la riservatezza di cui sopra,
adesso, esclude gran parte dei lettori di quotidiani dell’area metropolitana.
Ma questa, oramai, è la regola: non c’è irregolarità grande o piccola
della vita scolastica – episodi di bullismo, vandalismi, piccoli reati,
intemperanze sessuali vere e presunte, adesso persino gli scherzi – che
non sia destinata all’attenzione dei commissariati prima e delle redazioni
poi. È come se la società degli adulti si sia risolta a monitorare
con ogni mezzo le nuove generazioni, ne segua i comportamenti con tanta
ansia e tanta diffidenza da non riuscire più ad accontentarsi del controllo
istituzionale della scuola, ma da volere una sorveglianza sempre più cogente
e punitiva. Perché la polizia, si sa, si occupa di criminali e chiamare
la polizia significa voler criminalizzare gesti e atteggiamenti che si
considerano degni di censura, senza porsi neanche per sbaglio il problema
della coerenza di interventi del genere con il processo educativo.
Quell’ansia e quella diffidenza, d’altra
parte, non nasceranno dal nulla. Sono, a occhio e croce, una discreta
manifestazione di paranoia. E non ci vuol molto a ipotizzare che
rappresentino, in buona parte, un’espressione di senso di colpa da parte
di chi si rende conto, più o meno confusamente, di quali orrendi modelli
valoristici e comportamentali questo mondo proponga ai nostri futuri posteri.
Difficile, per dirne una, che il concetto di riservatezza alligni
nelle menti di chi negli anni formativi abbia avuto occasione di imbattersi
in qualcosa del tipo del “Grande fratello”. E finché questo deficit
culturale conduce a scherzi a base di mazzi di fiori, poco male, ma si
sa che cose del genere succedono solo nei licei classici del centro. Nell’hinterland
e in periferia, com’è noto, si va molto più sul pesante. Credo sia
stato appunto in un’aula di una scuola dell’hinterland milanese che,
giorni fa, una quattordicenne si è esibita in un pubblico incontro sessuale
con un coetaneo a beneficio dei videotelefonini di alcuni condiscepoli.
Anche lì, manco a dirlo, sono intervenuti poliziotti e giornalisti
in gran copia, con quanto vantaggio per un sereno sviluppo psichico e culturale
di quei minorenni è facile pensare. Comunque, è interessante che
quando qualcuno di loro ha cercato di farsi spiegare dall’interessata
le motivazioni del suo comportamento, lei non ha risposto che lo aveva
fatto perché le sembrava una buona idea e comunque erano fatti suoi (o
qualcosa del genere), ma semplicemente che non c’era “niente di male”
perché glielo avevano chiesto. Voleva dire, presumo, che nessuno
l’aveva costretta, ma forse la risposta implica anche il concetto per
cui quando ti offrono una occasione di pubblicità, in un mondo che dà sempre
più importanza all’esibizione di sé, bisogna saperla cogliere al volo.
Nel caso, si capisce, la mancanza di riservatezza era voluta, non
subita, ma di un problema di riservatezza sempre si tratta. E non
sarà esagerato supporre che la poverina abbia vissuto quell’esperienza
come una sorta di preparazione al ruolo di protagonista di qualche reality
show.
04.02.’07