C’era qualcosa che mi innervosiva,
e non riuscivo a capire cosa, negli articoli che celebravano, sui vari
quotidiani che mi capita di sfogliare, il trionfo a Cannes della Stanza
del figlio. Passavo da “Repubblica” al “Corriere” e al “Manifesto”,
leggevo quanto su quelle pagine scrivevano i nostri critici più autorevoli
e scuotevo la testa spazientito, ma senza sapere bene perché. In
effetti, continuavo a ripetermi, non avevo proprio motivo di dolermi del
fatto che la Palma d’Oro avesse premiato l’ultima fatica dell’ottimo
Nanni: io quel film non l’ho visto, e non intendo nemmeno andare a vederlo,
perché alla mia età di lutti da elaborare ne ho già troppi per conto mio,
ma una quantità di persone di cui mi fido quasi incondizionatamente mi
hanno assicurato che non è proprio male, e ciascuno può scegliere, per
le proprie opere, l’argomento che vuole. Non ho niente contro Moretti
come regista, anche se ho trovato i suoi ultimi film leggermente noiosi,
e, se pure non condivido la sua ormai celebre tesi su chi dovrebbe ringraziare
Berlusconi per la vittoria, devo ammettere che sentirgliela esprimere mi
ha divertito e comunque ne aveva ben il diritto e se tutti fossero espliciti
come lui il dibattito politico non potrebbe che guadagnarci. Stringi
stringi, l’unico vero elemento di dissenso che riuscivo a individuare
nei suoi confronti era il fatto che sua moglie – che credo collabori alle
sue sceneggiature – è una pessima traduttrice di libri gialli, ma, capirete,
questo potrebbe essere un puro frutto di gelosia di mestiere e, comunque,
avrebbe ben poco da fare con un sereno giudizio estetico e culturale sull’opera
e la figura di uno dei maestri del cinema contemporaneo. Insomma,
di quel fastidio sottopelle, di quel leggero, ma pronunciato disagio che
mi rendevo conto di provare di fronte all’esultanza di critici e inviati,
non riuscivo proprio a spiegarmi la ragione.
Poi,
naturalmente, ci sono arrivato e devo dire che il povero Moretti, davvero,
non c’entra. Il mio fastidio, vogliate scusarmi, era della stessa
natura che provo quando vince (ogni tanto succede) la Nazionale di calcio.
Felicissimo del fatto che avesse vinto un film che tutti mi garantivano
meritevole, non ero sicuro di condividere l’opinione, così largamente
espressa, che con quello avesse vinto l’intero cinema italiano. E
mi spiaceva terribilmente leggere che aveva vinto l’Italia. Soprattutto
leggere che avevamo vinto “noi”.
Mi
spiego subito. È incontestabile, naturalmente, che dopo non so quanti
anni di digiuno, dai tempi dell’Albero degli zoccoli (un film, tra parentesi,
abbastanza detestabile), un autore italiano abbia trionfato, come si dice,
sulla Croisette. Quanto e fino a che punto la sa opera rifletta
problematiche e tendenze diffuse nell’intera industria cinematografica
nazionale, non saprei dirvi, ma non è il mio mestiere e non mi ci provo
nemmeno. Ma del fatto che quell’opera possa o debba rappresentare,
in forma più o meno simbolica, un valore o un insieme di valori in cui
possiamo riconoscerci tutti noi, una specie di punto di riferimento collettivo,
che è l’unico modo possibile per considerare la sua vittoria una vittoria
dell’Italia, ebbene, mi spiace, ma di questo non riesco davvero a persuadermi
Moretti
e il suo film, lo ripeto, non c’entrano: il rifiuto di cui vi parlo è
di natura affatto generale. È il rifiuto di riconoscermi, di farmi
rappresentare da chi partecipa a eventi cui non partecipo io. Se
ha vinto l’Italia vuol dire che ha perso qualcun altro e con queste metafore
vagamente militari non voglio avere niente a che fare. Mi succede
lo stesso, come vi accennavo, con gli eventi sportivi, anche se in quel
caso, naturalmente, le motivazioni sono più facili. Se non mi sento
coinvolto quando vince, o perde, la Nazionale o quando la Ferrari si aggiudica,
o non si aggiudica, la Coppa del Mondo, è perché quelle attività
non mi interessano, non le seguo e non ho quindi motivo di considerarmene
in alcun modo partecipe. Il fatto di condividere la nazionalità e, talvolta,
la lingua con alcuni soggetti di quelle competizioni non mi sembra possa
significare granché.
Ma
quando l’evento competitivo riguardano un settore che m’interessa, come
dovrei reagire, allora? Forse mi sbaglio, ma credo si debba reagire
più o meno nello stesso modo: valutando quei fatti come “vittorie” o
“sconfitte” di individui, isolati o in gruppi, con cui ci si può identificare
o meno, ma con cui non si è obbligati a identificarsi solo perché sono
italiani anche loro. Sono stato lietissimo, anni fa, quando Dario
Fo ha avuto, a scorno dei molti tromboni che vi aspiravano, il premio Nobel,
ma non mi è passato per la testa di considerarla una vittoria nazionale.
Ero contento perché mi sembrava che il lavoro di Fo meritasse di
venire riconosciuto a quel livello e basta. Se il Nobel l’avesse
vinto, per dire, la Susanna Tamaro, mi sarei incazzato di brutto e il fatto
di condividere con quella gentile signora non solo la nazionalità e la
lingua, ma, all’epoca, persino l’editore, non mi sarebbe stato, ve lo
assicuro, di conforto alcuno.
E
poi, a prescindere da queste considerazioni squisitamente personali, siamo
proprio sicuri di poter dire che quando “vincono” un Fo o un Moretti
vinca l’Italia? L’Italia, lo sappiamo tutti, è una realtà complicata,
nella quale convivono, in palese disarmonia, elementi incantevoli e fattori
detestabili, con una certa qual prevalenza, si direbbe, per i secondi.
Il “siamo tutti italiani” è un discorso che, con tutto il rispetto
per il presidente Ciampi, mi ha sempre convinto assai poco. Non per
buttarla sempre in politica, ma sapete anche voi quali sono state le scelte
della maggioranza dei nostri connazionali. Avevano tutto il diritto
di esprimerle, figuriamoci, ma questo non significa che le differenze non
ci siano e che chi lo vuole non sia libero di sottolinearle. E certe
identificazioni, non foss’altro che per sicurezza, è meglio evitarle del
tutto.
Capirete: il rischio è quello di sentirsi
chiedere, un giorno o l’altro, di passare dall’esultanza per i successi
del cinema italiano, dello sport italiano, della cultura italiana a quella
per i trionfi del governo italiano, anche se, magari, si appartiene al
novero di coloro per cui quei trionfi sono altrettante mazzate. Meglio,
tutto sommato, lasciare che “Forza Italia!” lo gridino gli altri. È,
la loro, la sempiterna menzogna di chi pretende di identificare i propri
interessi particolari con quelli collettivi ed è appunto con questa pretesa
che non bisogna scendere a compromessi. Neanche al cinema.
Oh. Avevo appena finito di lavorare
a questa chiacchierata, quando mi è capitato di leggere, sulla prima pagina
di “Repubblica”, ieri, la signorile risposta del senatore Agnelli a un
intervistatore che gli chiedeva, in sostanza, come mai, dopo tanti di signorile
distacco, fosse passato improvvisamente dalla parte di Berlusconi. “Uomo
di parte io?” ha chiesto, a sua volta, l’Avvocato. E poi ha proseguito:
“Sì, pensandoci bene, forse è vero. In effetti è tutta una
vita che sto da una parte: la parte dell’Italia…”
Appunto.
C. Oliva, 27.05.’01