Visto che siamo tra amici, mi permetterete
– spero – di sostenere una tesi che potrebbe venire fraintesa. Io
non credo che ci sia da compiacersi, nonostante quasi tutti se ne siano
compiaciuti, del voto con cui la Camera dei Deputati, martedì scorso, ha
deciso quasi all’unanimità di proclamare per il 27 gennaio di ogni anno
il “giorno della memoria”, perché non venga mai dimenticata la Shoah,
il terribile genocidio perpetrato contro il popolo ebraico dai nazisti
tedeschi e dai loro alleati. Credo di capire i motivi che hanno
spinto i nostri parlamentari a prendere quella decisione, ma, mi spiace,
non la ritengo giusta.
Cercate
di capirmi. Non sono certo motivato dalla volontà di negare, sulla
falsariga del revisionismo storico contemporaneo, la realtà della Shoah,
o di sminuirne in qualsiasi modo il terribile significato. Il 27
gennaio è la data della liberazione di Auschwitz e la visita di Auschwitz,
che ho avuto più volte occasione di fare, accompagnandovi delle scolaresche,
resta una delle esperienze più sconvolgenti che abbia vissuto. E
non condivido, naturalmente, il punto di vista dei quattro “onorevoli”
(Colletti, Mancuso, Previti e Savelli) che sulla proposta si sono astenuti,
eccependo che, come si ricordano le vittime del nazismo, così bisognerebbe
ricordare quelle del comunismo, affiancando al ricordo istituzionalizzato
di Auschwitz quello, altrettanto istituzionalizzato, del Gulag. Io
rispetto anche le vittime del Gulag, naturalmente, ma mi sembra che questa
sorta di ragioneria della persecuzione, per cui ai morti di una parte si
contrappongono quelli dell’altra, come per compesarli, nell’inconfessata
presunzione che una mano lavi comunque l’altra, mi sembra particolarmente
meschina e disgustosa. E comunque non può funzionare, perché davvero
troppe sono le “cause”, nobili e ignobili, in nome delle quali gli esseri
umani, ieri come oggi, si sono sentiti autorizzati a umiliare, vessare,
sfruttare e massacrare i loro simili. La storia dell’umanità è una
storia di stragi e la storia della cultura consiste, in buona parte, nell’elaborazione
di complessi sistemi ideologici con cui giustificarle. Ma per chi
rifiuta di riconoscere dignità a quei tentativi, tutti gli appartenenti
ai popoli sterminati per avidità di conquista, tutte le vittime del nazionalismo,
del razzismo, della miseria e dello sfruttamento, i morti in schiavitù,
le supposte streghe e gli eretici arsi sul rogo, le vittime degli autodafé
e dell’intolleranza sono fratelli in spirito dei sei milioni di
morti della Shoah, come lo sono, al giorno d’oggi, i protagonisti delle
nostre cupe cronache quotidiane: dai poveracci che hanno perso la vita
sotto i “bombardamenti umanitari” partiti da Aviano agli albanesi massacrati
dai serbi e ai serbi massacrati dagli albanesi, dai profughi affondati
e lasciati annegare nel canale di Otranto agli “extracomunitari” bruciati
vivi nelle industriose cittadine padane. Sono tutti casi diversi,
certo, ma la realtà di chi viene perseguitato e ucciso dai suoi simili
solo perché i suoi simili non si considerano tali è sempre, inesorabilmente,
quella. Da un certo punto di vista, ahimè, le vittime sono tutte
uguali e ricordandone soltanto alcune si rischia, magari involontariamente,
di mancare di rispetto alle altre.
Posso
sbagliarmi, naturalmente. Ma, in fondo, di dichiarare solennemente
che i nazisti sono cattivi e che i loro delitti non vanno dimenticati sono
capaci tutti. Rendersi conto dell’intolleranza di cui è impastata
la nostra democratica società, riflettere sulle vittime che produce, rendere
anche a esse l’onore che meritano può essere più difficile, ma è altrettanto
necessario. E, credetemi, su questo impegno non troveremo mai un’unanimità.
Per fortuna.
02.04.’00