Non so se ve ne siete accorti anche
voi, ma i venti di guerra che da domenica hanno ricominciato a soffiare
sul mondo, aggiungendo rovine alle rovine e assommando morti sui morti,
un risultato, almeno, l’hanno raggiunto. Hanno cancellato dalla
memoria e dell’attenzione di tutti noi il ricordo dell’11 settembre.
Sull’episodio che ha gettato l’intero Occidente nello sgomento,
sulle oltre seimila vittime che ancora giacciono sotto le rovine del World
Trade Center, è calato il silenzio. Le immagini dei bombardamenti, con
la loro spietata consequenzialità, con la loro inesorabile logica, hanno
definitivamente soppiantato quelle del dolore e della solidarietà, che,
dall’indomani dell’attacco suicida alle Torri, ci giungevano da New York.
Ed è logico, in fondo: siamo in guerra, anche se non si sa bene contro
chi, e in guerra non si piange sui morti, né propri, né altrui.
Su
quelle seimila vittime, d’altronde, non si è voluto mai piangere. Il
lutto per la loro scomparsa si è sublimato immediatamente nella pubblica
affermazione di una volontà di vendetta. Gli Stati Uniti, l’Europa,
l’Occidente non avevano neanche fatto in tempo a rendersi conto di quanto
era successo, che già Bush, appena sceso dall’aereo su cui le procedure
di sicurezza lo avevano confinato, garantiva ai suoi cittadini che l’offesa
non sarebbe restata impunita. E da questo registro non si sono più
scostati i commenti dei grandi del mondo e dei loro portavoce. Per
un mese, al mondo è stato esibito in diretta il progressivo dispiegarsi
della macchina militare, come se nella sua astratta perfezione ognuno
dovesse trovare un paradossale conforto. Tutti gli americani (nel
senso, naturalmente, dei cittadini degli Stati Uniti), tutti gli occidentali
dovevano capire che anche se erano stati colpiti in una dei simboli della
loro potenza, se era stata violata la loro sicurezza e offesa la loro supremazia,
i colpevoli l’avrebbero certamente pagata. I più forti erano sempre
loro e glielo avrebbero fatto vedere.
È
abbastanza umano, naturalmente, cercare sollievo al dolore nella volontà
di vendetta. Ma la guerra, purtroppo, è la guerra: un meccanismo
dotato di una sua preoccupante autonomia, della capacità di crescere su
di sé e di proporsi da sé i propri obiettivi. Di fatto, nello spazio
di un mese, molto prima che partissero i primi missili, gli obiettivi di
quella guerra annunciata erano profondamente cambiati. Il fine non
era più quello di punire i terroristi o di metterli nell’impossibilità
di nuocere ulteriormente. Visto che si doveva combattere, tanto valeva
gettare nel mucchio anche gli obiettivi tradizionali della politica statunitense,
occuparsi di petrolio e oleodotti, di equilibri regionali e di “sicurezza
globale”… Non è un caso se gli Stati Uniti hanno chiesto l’impegno
preventivo della NATO nella forma più solenne prevista dai protocolli di
quell’alleanza. Non è un caso se Bush e Blair e i loro satelliti
continuano ad alludere all’eventualità che il conflitto si allarghi, che
nuovi obiettivi siano colpiti, che altri paesi e altre popolazioni entrino
nel mirino degli alleati. Qualcuno si è già spinto a dire
che il fine ultimo è quello di un nuovo ordine mondiale. E che volete
che importi, in una prospettiva del genere, se quel poco che resta della
città afghane viene raso sistematicamente al suolo? I problemi in
ballo sono ben altri. La stessa esigenza di vendicare le vittime
di New York e di Washington, a questo punto, diventa del tutto irrilevante.
È
forse per questo che nessuno, a un mese di distanza dalla tragedia, sembra
sentire il bisogno di piangerle. D’altronde, ci ha deciso di imporre
il proprio ordine a tutto il pianeta non può essere sensibile al lutto.
Quello del lutto è un momento di crisi, un momento in cui, interrogandosi
sulla perdita che ci è stata inflitta ci si chiede perché sia toccata proprio
a noi, cosa abbiamo mai fatto per meritarcela. E queste, ahimè, sono
domande che l’Occidente non può permettersi. Ne conosce benissimo
le risposte e non ha la minima intenzioni di farci i conti. Meglio,
tutto sommato, dimenticare.
14.10.’01