Vari possibili travestimenti

La caccia | Trasmessa il: 01/28/2007



Che la società italiana di oggi, come ha ricordato il Presidente della Repubblica nel discorso che ha dedicato giovedì scorso alla Giornata della Memoria, sia afflitta da una buona dose di “razzismo, violenza e sopraffazione contro i diversi” non è tanto un oggetto di deprecazione quanto un dato di fatto.  Doverosa, quindi, la sua ferma condanna di “ogni rigurgito di antisemitismo”.  L’antisemitismo è una delle piaghe ideologiche del pianeta e un paese come il nostro, che non solo ha accettato, senza troppe proteste, l’infamia delle leggi razziali, ma è geneticamente segnato dalla tradizione cattolica, che in materia non ha mai scherzato, non può permettersi di ignorarlo.  I “rigurgiti” cui ha alluso Napolitano saranno forse meno evidenti delle spedizioni punitive contro i campi nomadi o del disprezzo diffuso verso gli immigrati, ma vanno lo stesso tenuti d’occhio.
        Il Presidente, come saprete, ha specificato che da ogni tentazione in quel senso ci si deve guardare anche quando l’antisemitismo “si traveste” da antisionismo.  Niente da obiettare, naturalmente, visto che la capacità di non lasciarsi ingannare dai travestimenti è una dote civica di sicura utilità.  Ma è degno di nota, lo ammetterete, il fatto che, di tutto il discorso, quel passaggio sia stato quello che più ha suscitato lodi e consensi tra i commentatori.  Il sistema dei media, che in Italia è impegnato, salvo rare eccezioni, in una difesa affatto acritica della politica dello Stato di Israele e dei suoi governi, si è mostrato ovviamente entusiasta dell’affermazione presidenziale per cui “antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi”, quali che siano i governi che si alternano alla sua guida.  L’identificazione tra gli oppositori di quella politica con i nemici di Israele tout court, e quindi con i fautori di un antisionismo visto come riproposizione dell’antisemitismo storico, è sempre stato il pezzo forte di un certo establishment atlantico nazionale e non è sembrato vero, ai suoi rappresentanti, di ritrovarla (sforzandole un po’) nelle parole della massima carica dello stato.
        Fino a qualche anno fa, vi confesso, tutto ciò mi avrebbe oltremodo irritato.  Il sionismo, la dottrina per cui la quale l’unica speranza di salvezza del popolo ebraico consiste nel “ritorno” dei suoi figli in Palestina e nella fondazione di un proprio stato sovrano, è in sé affatto rispettabile, ma questo non vuol dire che lo siano ipso facto tutte le sue applicazioni.  Non è neanche vero che esso esaurisca, come sostenevano i suoi fondatori,  le ipotesi di superamento di quella che allora si chiamava “la questione ebraica”.  Nessuno vorrà negare, spero, la possibile alternativa dell’integrazione in una struttura laica capace di rispettare, oltre ai diritti degli individui, quelli delle comunità, come avviene nelle grandi democrazie occidentali, in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, dove, non a caso, vivono complessivamente più ebrei che in Israele.  Difficile capire, in realtà, perché non si possa discutere sulle conseguenze e le  implicazioni delle varie possibili scelte senza dover sottostare alla spada di Damocle di un’accusa infamante come quella di antisemitismo.  Chi ritiene che un certo atteggiamento israeliano sia una delle (con)cause della crisi attuale in quella parte del mondo, ha il pieno diritto di dirlo e il solo dovere di motivare le proprie argomentazioni.  Rispondergli dandogli dell’antisionista, e quindi dell’antisemita, non è, francamente, un’argomentazione cui valga la pena di ribattere.
        Tuttavia, vi dicevo, la questione oggi mi sembra meno importante.  Le cose si sono troppo aggrovigliate, laggiù, perché ci si possa accontentare della “verità” tradizionali. Lo stesso sionismo, in fondo, appartiene più al passato che al presente (o al futuro): è un tipico prodotto di un certo clima culturale democratico del tardo Ottocento e non si può proprio dire che nella realtà israeliana di oggi sopravviva un gran che delle componenti utopiche, solidaristiche e di democrazia diretta che lo caratterizzavano.  Il diritto di esistere di Israele non si fonda su quella ideologia, né su altre, ma sui diritti universali dei popoli, comunque si siano costituiti, come a dire su quell’accettazione dello stato di fatto di fronte alla quale le ideologie e le dottrine devono inevitabilmente cedere il passo, come ammettono, ormai, anche gli interlocutori arabi.  E quanto alla sicurezza, nessuno mi toglierà mai dalla testa l’idea che la si debba cercare più che in un sistema di equilibri armati tra due o più stati – un modello che storicamente non ha funzionato mai – in una forma o in un’altra di conciliazione, che passi di necessità attraverso il superamento consensuale della situazione di oggi, con la costituzione, presto o tardi, di una struttura comune in cui tutti gli abitanti dell’antica terra di Canaan potranno vivere in pace da quei bravi fratelli che  sono, anche se ancora non gli è stato permesso di rendersene conto.
Che è un’utopia, naturalmente, un ideale laico la cui realizzazione, temo, personalmente non vedrò mai.   Ma su simili progetti conviene sempre confidare, nella consapevolezza che, al di là della loro apparente implausibilità, rappresentano l’unica, ma proprio l’unica, prospettiva possibile.  Alla fin fine, la sola alternativa per chi li rifiuti è quella di rassegnarsi a una delle tante possibili forme con cui si traveste la sopraffazione.

28.01.’07