Che la società italiana di oggi, come
ha ricordato il Presidente della Repubblica nel discorso che ha dedicato
giovedì scorso alla Giornata della Memoria, sia afflitta da una buona dose
di “razzismo, violenza e sopraffazione contro i diversi” non è tanto
un oggetto di deprecazione quanto un dato di fatto. Doverosa, quindi,
la sua ferma condanna di “ogni rigurgito di antisemitismo”. L’antisemitismo
è una delle piaghe ideologiche del pianeta e un paese come il nostro, che
non solo ha accettato, senza troppe proteste, l’infamia delle leggi razziali,
ma è geneticamente segnato dalla tradizione cattolica, che in materia non
ha mai scherzato, non può permettersi di ignorarlo. I “rigurgiti”
cui ha alluso Napolitano saranno forse meno evidenti delle spedizioni punitive
contro i campi nomadi o del disprezzo diffuso verso gli immigrati, ma vanno
lo stesso tenuti d’occhio.
Il
Presidente, come saprete, ha specificato che da ogni tentazione in quel
senso ci si deve guardare anche quando l’antisemitismo “si traveste”
da antisionismo. Niente da obiettare, naturalmente, visto che la
capacità di non lasciarsi ingannare dai travestimenti è una dote civica
di sicura utilità. Ma è degno di nota, lo ammetterete, il fatto che,
di tutto il discorso, quel passaggio sia stato quello che più ha suscitato
lodi e consensi tra i commentatori. Il sistema dei media, che in
Italia è impegnato, salvo rare eccezioni, in una difesa affatto acritica
della politica dello Stato di Israele e dei suoi governi, si è mostrato
ovviamente entusiasta dell’affermazione presidenziale per cui “antisionismo
significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle
ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi”, quali che
siano i governi che si alternano alla sua guida. L’identificazione
tra gli oppositori di quella politica con i nemici di Israele tout court,
e quindi con i fautori di un antisionismo visto come riproposizione dell’antisemitismo
storico, è sempre stato il pezzo forte di un certo establishment atlantico
nazionale e non è sembrato vero, ai suoi rappresentanti, di ritrovarla
(sforzandole un po’) nelle parole della massima carica dello stato.
Fino
a qualche anno fa, vi confesso, tutto ciò mi avrebbe oltremodo irritato.
Il sionismo, la dottrina per cui la quale l’unica speranza di salvezza
del popolo ebraico consiste nel “ritorno” dei suoi figli in Palestina
e nella fondazione di un proprio stato sovrano, è in sé affatto rispettabile,
ma questo non vuol dire che lo siano ipso facto tutte le sue applicazioni.
Non è neanche vero che esso esaurisca, come sostenevano i suoi fondatori,
le ipotesi di superamento di quella che allora si chiamava “la questione
ebraica”. Nessuno vorrà negare, spero, la possibile alternativa
dell’integrazione in una struttura laica capace di rispettare, oltre ai
diritti degli individui, quelli delle comunità, come avviene nelle grandi
democrazie occidentali, in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti,
dove, non a caso, vivono complessivamente più ebrei che in Israele. Difficile
capire, in realtà, perché non si possa discutere sulle conseguenze e le
implicazioni delle varie possibili scelte senza dover sottostare
alla spada di Damocle di un’accusa infamante come quella di antisemitismo.
Chi ritiene che un certo atteggiamento israeliano sia una delle (con)cause
della crisi attuale in quella parte del mondo, ha il pieno diritto di dirlo
e il solo dovere di motivare le proprie argomentazioni. Rispondergli
dandogli dell’antisionista, e quindi dell’antisemita, non è, francamente,
un’argomentazione cui valga la pena di ribattere.
Tuttavia,
vi dicevo, la questione oggi mi sembra meno importante. Le cose si
sono troppo aggrovigliate, laggiù, perché ci si possa accontentare della
“verità” tradizionali. Lo stesso sionismo, in fondo, appartiene più al
passato che al presente (o al futuro): è un tipico prodotto di un certo
clima culturale democratico del tardo Ottocento e non si può proprio dire
che nella realtà israeliana di oggi sopravviva un gran che delle componenti
utopiche, solidaristiche e di democrazia diretta che lo caratterizzavano.
Il diritto di esistere di Israele non si fonda su quella ideologia,
né su altre, ma sui diritti universali dei popoli, comunque si siano costituiti,
come a dire su quell’accettazione dello stato di fatto di fronte alla
quale le ideologie e le dottrine devono inevitabilmente cedere il passo,
come ammettono, ormai, anche gli interlocutori arabi. E quanto alla
sicurezza, nessuno mi toglierà mai dalla testa l’idea che la si debba
cercare più che in un sistema di equilibri armati tra due o più stati –
un modello che storicamente non ha funzionato mai – in una forma o in
un’altra di conciliazione, che passi di necessità attraverso il superamento
consensuale della situazione di oggi, con la costituzione, presto o tardi,
di una struttura comune in cui tutti gli abitanti dell’antica terra di
Canaan potranno vivere in pace da quei bravi fratelli che sono, anche
se ancora non gli è stato permesso di rendersene conto.
Che è un’utopia, naturalmente, un ideale
laico la cui realizzazione, temo, personalmente non vedrò mai. Ma
su simili progetti conviene sempre confidare, nella consapevolezza che,
al di là della loro apparente implausibilità, rappresentano l’unica, ma
proprio l’unica, prospettiva possibile. Alla fin fine, la sola alternativa
per chi li rifiuti è quella di rassegnarsi a una delle tante possibili
forme con cui si traveste la sopraffazione.
28.01.’07