Sul “manifesto” di mercoledì 3 dicembre Manuela Cartosio
si stupisce che i milanesi, all’indomani del lunedì nero che, causa sciopero
dei mezzi, li ha visti tutti a piedi, o fermi in colonna nelle loro auto,
non abbiano dato l’assalto ai tram e agli autobus per farne a pezzi i
conducenti. Ma si tratta, naturalmente, di una mossa retorica, perché
a quel giornale sanno benissimo che i nostri concittadini – almeno per
quella parte di loro che prende regolarmente il tram – sono persone, alla
fin fine, ragionevoli, e per quante madonne abbiano potuto tirare in quella
giornata di caos non potevano certo aderire a quella specie di invito linciaggio
che autorità varie, enti, sindacati e partiti avevano così entusiasticamente
diffuso lunedì sera. A Milano le strutture del lavoro dipendente
non saranno più quelle di un tempo, ma di gente che lavora sotto padrone
ne resta abbastanza perché non sia così facile far passare il principio
che i disagi causati da uno sciopero vanno addebitati solo alla riottosità
degli scioperanti. Che qualche responsabilità possa essere ricondotta
alla controparte, presto o tardi, finiscono per capirlo tutti.
Pure, il tentativo
c’è stato. A partire dal sindaco Albertini, cui, dopo le gloriose
campagne condotte contro i tassisti e i vigili urbani, non sarà sembrato
vero trovare un altro gruppo sociale cui addossare le defaillances dell’eccellenza
ambrosiana, per finire con quel notista che ha denunciato, sulle pagine
locali del “Corriere”, la protervia di una categoria i cui esponenti,
a metà carriera, arrivano a guadagnare ben centottantamila euro al mese
lordi, senza prendersi la briga di calcolare quanto di quella cifra finisce
effettivamente nelle tasche dei lavoratori. Tutti, a partire dai
nostri colleghi dei media, ci hanno ripetuto, in commuovente concordia
nella varietà delle sfumature, che queste cose no, non si fanno. Non
si prende in ostaggio una città. Non si fanno pagare ai cittadini
le colpe dell’amministrazione(se colpe sono). Lo sciopero dei servizi
pubblici, perbacco, è retto da certe regole cui è obbligatorio, anzi, essenziale,
adeguarsi, a prezzo di finire, inesorabilmente, dalla parte del torto.
Come i tranvieri, appunto.
Nessuno si è preso
il disturbo di riflettere sul fatto che la questione sta tutta qui. Che
il problema che ha fatto imbufalire i nostri pur pazienti autoferrotranvieri
(che, in fondo, rivendicano solo l’applicazione di un contratto già sottoscritto)
sia ancora all’ordine del giorno dopo dodici scioperi nazionali condotti
in rigoroso ossequio alla normativa, significa solo che quella normativa,
evidentemente, non giova all’efficacia dell’arma dello sciopero. Che
ne fa, anzi, un’arma spuntata. E che in nome della tutela della
democrazia nei rapporti di lavoro e della difesa di un diritto riconosciuto
dalla Costituzione, è giunto il momento di darci un taglio. Persino
nel sindacato, adesso, qualcuno si è accorto che l’idea di uno sciopero
regolamentato in modo da non recare disagi a nessuno, salvo forse che agli
scioperanti, sa un po’ troppo di utopia padronale per essere presa sul
serio.
Il fatto è che il
padronato, che volete, è sempre un po’ ingordo. Non ha mai mandato
giù veramente il diritto di sciopero, e visto che da cosa nasce cosa, non
ha mai rinunciato alla speranza di imbrigliarlo in toto nelle regole che
hanno reso vano quello dei servizi pubblici (che mi sembra sia poi il senso
ultimo della proposta avanzata in questi giorni dal ministro Maroni).
Ma tra il dire e il fare, naturalmente, c’è la capacità di lotta dei lavoratori,
la loro volontà di denunciare – anche platealmente – certe regole inique.
Lungi dal “prendere in ostaggio” i loro concittadini, i tranvieri
milanesi gli hanno fatto, lunedì scorso, un grosso favore.
07.12.’03