Utopie padronali

La caccia | Trasmessa il: 12/07/2003



Sul “manifesto” di mercoledì 3 dicembre Manuela Cartosio si stupisce che i milanesi, all’indomani del lunedì nero che, causa sciopero dei mezzi, li ha visti tutti a piedi, o fermi in colonna nelle loro auto, non abbiano dato l’assalto ai tram e agli autobus per farne a pezzi i conducenti.  Ma si tratta, naturalmente, di una mossa retorica, perché a quel giornale sanno benissimo che i nostri concittadini – almeno per quella parte di loro che prende regolarmente il tram – sono persone, alla fin fine, ragionevoli, e per quante madonne abbiano potuto tirare in quella giornata di caos non potevano certo aderire a quella specie di invito linciaggio che autorità varie, enti, sindacati e partiti avevano così entusiasticamente diffuso lunedì sera.  A Milano le strutture del lavoro dipendente non saranno più quelle di un tempo, ma di gente che lavora sotto padrone ne resta abbastanza perché non sia così facile far passare il principio che i disagi causati da uno sciopero vanno addebitati solo alla riottosità degli scioperanti.  Che qualche responsabilità possa essere ricondotta alla controparte, presto o tardi, finiscono per capirlo tutti.
        Pure, il tentativo c’è stato.  A partire dal sindaco Albertini, cui, dopo le gloriose campagne condotte contro i tassisti e i vigili urbani, non sarà sembrato vero trovare un altro gruppo sociale cui addossare le defaillances dell’eccellenza ambrosiana, per finire con quel notista che ha denunciato, sulle pagine locali del “Corriere”, la protervia di una categoria i cui esponenti, a metà carriera, arrivano a guadagnare ben centottantamila euro al mese lordi, senza prendersi la briga di calcolare quanto di quella cifra finisce effettivamente nelle tasche dei lavoratori.  Tutti, a partire dai nostri colleghi dei media, ci hanno ripetuto, in commuovente concordia nella varietà delle sfumature, che queste cose no, non si fanno.  Non si prende in ostaggio una città.  Non si fanno pagare ai cittadini le colpe dell’amministrazione(se colpe sono).  Lo sciopero dei servizi pubblici, perbacco, è retto da certe regole cui è obbligatorio, anzi, essenziale, adeguarsi, a prezzo di finire, inesorabilmente, dalla parte del torto.  Come i tranvieri, appunto.
        Nessuno si è preso il disturbo di riflettere sul fatto che la questione sta tutta qui.  Che il problema che ha fatto imbufalire i nostri pur pazienti autoferrotranvieri (che, in fondo, rivendicano solo l’applicazione di un contratto già sottoscritto) sia ancora all’ordine del giorno dopo dodici scioperi nazionali condotti in rigoroso ossequio alla normativa, significa solo che quella normativa, evidentemente, non giova all’efficacia dell’arma dello sciopero.  Che ne fa, anzi, un’arma spuntata.  E che in nome della tutela della democrazia nei rapporti di lavoro e della difesa di un diritto riconosciuto dalla Costituzione, è giunto il momento di darci un taglio.   Persino nel sindacato, adesso, qualcuno si è accorto che l’idea di uno sciopero regolamentato in modo da non recare disagi a nessuno, salvo forse che agli scioperanti, sa un po’ troppo di utopia padronale per essere presa sul serio.
        Il fatto è che il padronato, che volete, è sempre un po’ ingordo.  Non ha mai mandato giù veramente il diritto di sciopero, e visto che da cosa nasce cosa, non ha mai rinunciato alla speranza di imbrigliarlo in toto nelle regole che hanno reso vano quello dei servizi pubblici (che mi sembra sia poi il senso ultimo della proposta avanzata in questi giorni dal ministro Maroni).   Ma tra il dire e il fare, naturalmente, c’è la capacità di lotta dei lavoratori, la loro volontà di denunciare – anche platealmente – certe regole inique.  Lungi dal “prendere in ostaggio” i loro concittadini, i tranvieri milanesi gli hanno fatto, lunedì scorso, un grosso favore.

07.12.’03