Uno dei tanti percorsi possibili

La caccia | Trasmessa il: 02/27/2005



La faccia a pagina 11 del “Corriere”, domenica scorsa, è quella di un signore in giacca e cravatta, dall’aria distinta, ben diversa da quella dei soliti sciamannati con cui ho a che fare di solito, ma ha lo stesso un che di vagamente familiare.  Mi sistemo gli occhiali sul naso, guardo da un po’ più vicino e, sì, la foto, se non proprio quella di un vecchio amico, è comunque quella di uno che ho avuto, in passato, modo di frequentare.  È una faccia degli anni di “Lotta continua”.  Paolo, Paolo S., che allora tutti chiamavamo più o meno affettuosamente Paolino ed era, se non proprio uno dei leader massimi dell’organizzazione, un dirigente, almeno a Milano, piuttosto importante.  Come tanti compagni che venivano dalla facoltà di Sociologia di Trento, era di formazione cattolica e bazzicava di preferenza nel ramo ideologico: io lo avevo conosciuto, mi sembra, perché per un po’ ci eravamo occupati tutti e due di scuola e studenti.  Saranno quindici anni che non lo incontro né ho sue notizie dirette o indirette.
        Leggo l’articolo che accompagna la foto (si tratta, in realtà, di una intervista) e capisco anche perché.  Il Paolo in questione, oggi, è presidente del Movimento per la vita della nostra città, tiene due rubriche a Radio Maria, ha fondato da poco una società di consulenze e ha appena vinto una cattedra alla Università Europea di Roma, che nel testo viene definita semplicemente “un ateneo pontificio”, ma deve essere, se non erro, una emanazione dei “Legionari di Cristo”, che, notoriamente, tra tutti i movimenti cattolici è quello che comincia là dove finisce l’Opus Dei.  Sapevo che Paolino aveva lasciato il PCI, in cui era passato dopo il ‘76, per rientrare nell’area del cattolicesimo militante (lo avevo anche sentito tessere, qui a Radio Popolare, le lodi di Carlo Borromeo), ma non pensavo che si fosse spinto così in là.   Eppure avrei potuto immaginarmelo: all’epoca, quando faceva la scuola quadri ai ragazzotti di Sesto e della periferia milanese, non si presentava certo come un moderato.  Dubbi sulla linea lui non ne aveva proprio e si capiva che quella sicurezza era del tipo che porta lontano.  Dante scrive che tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico ed era ovvio che una figura di tanta determinazione non poteva restare confinata a vita nel mondo un po’ asfittico della sinistra.  E non è colpa di nessuno, ovviamente, se l’unica alternativa alla sinistra sconfitta è la destra vincente.
D’altronde, questo è appunto l’argomento dell’intervista, in cui il mio ex compagno racconta della sua evoluzione ideologica, che non significa, sia chiaro, “né autocritica né pentimento”, tanto è vero che non ha mai rotto l’antica amicizia con Adriano Sofri e spera di rincontrarlo, un giorno, libero a Gerusalemme, “il luogo del ritorno alle radici, il punto centrale del ripensamento”. Cita quelli che considera i suoi modelli e compagni di percorso, Pasolini, che una volta gli chiese come mai a LC parlavano sempre di rivoluzione e non discutevano mai di aborto e di vita, “Pierre Victor, alias Benny Lévy, ‘il segretario di Sartre, tornato alla Torah come io sono tornato alla Bibbia’”, padre Dubois, “domenicano tomista e fondatore della facoltà di filosofia dell’università di Gerusalemme”, e poi “i neocon cristiani e il movimento americano pro life, in cui convivono Verdi ed evangelici”.  Esprime una gran diffidenza nei confronti dei pretesi “rinnovatori del mondo cattolico”, considera tra i suoi maestri Augusto del Noce, ritiene che Buttiglione sia un filosofo eccellente e si compiace di essere stato al Cairo alla conferenza dell’ONU sullo sviluppo, dove ha affiancato Navarro Valls “nella conferenza stampa per spiegare la dottrina della Chiesa alle inviate dei quotidiani arabi” e, nel successivo “scontro tra le femministe occidentali e gli islamici”, ha avuto modo di notare che “le giornaliste portavano minigonne mozzafiato ma anche i mullah nei loro tabarri neri erano bellissimi.”
Niente da eccepire, naturalmente.   Ognuno è libero di fare della propria  vita quello che crede e in Lotta Continua si sono intrecciati destini anche più strani. Quello che non riesco a capire, se mai, è perché al “Corriere” abbiano ritenuto rilevante dal punto di vista giornalistico e informativo pubblicare un’intervista del genere.  Non c’è, in quel tipo di evoluzione, nulla di eccezionale.  Nel nostro paese il cambio della casacca, quali ne siano le motivazioni, è sempre stata un’attività piuttosto diffusa.  È una scelta che hanno fatto in tanti e spesso con delle ottime ragioni.  Il Machiavelli, dopo il fallimento della Repubblica fiorentina, si era convinto del valore salvifico dell’opzione del principato (e d’altronde lui teorizzava la subordinazione dei mezzi ai fini) e Vincenzo Monti, che cantò con totale equanimità chiunque fosse al potere, dal papa ai giacobini, da Napoleone agli austriaci, era semplicemente disinteressato alle minutiae della vita politica, tanto è vero che compose per tutti degli ugualmente splendidi versi.  Ma, lasciando perdere quegli esempi illustri, e pur temendo presente che un termine come “rivoluzionario” ha un valore affatto relativo, ammetterete anche voi che tra i tanti percorsi possibili nel campo minato della ideologia, quello che porta da una giovinezza in panni rivoluzionari a una maturità improntata a tutt’altre scelte, non è tanto raro che ci si debbano fare degli articoli sopra.
Probabilmente lo sa anche l’intervistato.  Tanto è vero che, come per metterci un po’ di pepe, ne spara di grosse.  Non tanto quando dichiara che, a suo avviso, dagli anni ’70 si leva “un lezzo morale”, che è soltanto una conferma della terribile severità con la quale i convertiti sogliono guardare alla chiesa di provenienza, e d’altronde è motivata in termini un po’ oscuri, tipo “Eravamo innovativi per la nostra modernità, ma tradizionalisti per la teoria.  La nostra mente marxista era arretrata rispetto ai nostri corpi”.  È più eclatante, forse, quando si rammarica che in LC non si discutesse affatto di aborto e dice di attendersi che le donne che ne fecero parte facciano oggi ammenda della lacuna.  “Le nostre femministe furono le più brave a distruggere e sono le più brave a ricostruire.  Ma ora devono fare un altro passo: confrontarsi con la Madonna di Fatima.  Avere il coraggio di andare alle radici della donna occidentale, ritrovare Maria di Nazareth.”
È una dichiarazione abbastanza forte perché il “Corriere” ci faccia il titolo (e anche uno strillo in prima pagina).  Ma, oltre al fatto che non oso pensare a cosa le femministe di Lotta Continua avrebbero detto di un dirigente maschio che si fosse azzardato a spiegargli cosa fare o non fare, è anche un’affermazione abbastanza oscura.  Come si fa, oggi, a confrontarsi niente meno che con la Madonna?  Sappiamo tanto poco di quella figura, oltre alla storia del suo concepimento miracoloso, come lo racconta Luca, che non è evidentemente un esempio che ci si possa proporre volontariamente di seguire.  Nei Vangeli su di lei troviamo soltanto degli squarci occasionali di notizie: rimprovera il Figlio che si è attardato a discutere con i dottori nel tempio, ma non può comprendere la sua risposta; partecipa alle Nozze di Cana; è presente ai piedi della Croce… e poi? .  Quasi tutto il resto, l’Immacolata Concezione, la Dormizione, l’Assunzione, la verginità in partu e post partum  e così via ce l’hanno aggiunto i posteri, con una serie di audaci estrapolazioni che hanno causato spesso risse e rotture nel corpo della Cristianità, risse e rotture che non si sono placate nemmeno oggi.  Quella di Maria di Nazareth  è una figura di madre, certo, ma proprio in quanto tale, dovrebbe godere di una valenza universale e collocarla, semplicemente, “alle radici della donna occidentale” suona un po’ riduttivo, quasi come un’appropriazione.  La “donna occidentale” è una ipotesi antropologica tra le tante: la Madonna dovrebbe rivolgersi a tutti.  E Fatima, naturalmente, è soltanto uno dei tanti luoghi in cui, secondo modalità storicamente determinate, si celebra il suo culto, sottolineandone certi valori specifici, ma senza poterne (o volerne) esaurire tutte le potenzialità.
La smetto subito, visto che la teologia, come saprete, non è il mio forte.  Ma, personalmente, non riesco a trovare nel racconto evangelico dell’Annunciazione nulla che si possa invocare a favore della necessità di legiferare in un senso o nell’altro in tema di maternità e procreazione: mi sembra, anzi, un racconto che sottolinea la libertà della scelta da parte della donna.  Posso sbagliare, naturalmente. Ma è tipico di quella parte del Cristianesimo che si rispecchia in organizzazioni quali il Movimento per la vita e i Legionari di Cristo appropriarsi della tradizione così com’è, ignorandone il complesso travaglio formativo, con l’inevitabile conseguenza di specificare il non detto, di chiudere ogni ipotesi di ricerca a favore di una dottrina “data”, presentata e vissuta come l’unica possibile.   È un modo di ragionare, questo, che, lezzo morale o non lezzo morale, negli ultimi venti secoli ha prodotto ben più “disastri” di quanti se ne possano addebitare, con tutta la possibilità severità, al movimento degli anni ’70.  Ma, in fondo, anche i danni di quegli anni, facendo la debita proporzione, possono essere addebitati a una troppo disinvolta appropriazione di alcune certezze, oltre che alla volontà di imporle a ogni costo anche ai non credenti.  Da una certezza all’altra, in effetti, ci si muove sempre con una certa, invidiabile disinvoltura: il passaggio dal dommatismo rivoluzionario a quello ecclesiastico è certamente più facile di un percorso che accetti la necessità del dubbio e del dibattito permanente.
Continuo a non capire che necessità ci fosse di pubblicare quella intervista.

27.02.’05